CETA, DOSSIER GIURIDICO CON I PRO E I CONTRO. ANALISI DI UNA POLEMICA GIURIDICAMENTE INFONDATA

AGRICOLAE pubblica un Dossier giuridico sul caso CETA, che ha diviso il mondo politico, il mondo agricolo, quello dell’industria e quello della rappresentanza. Il tempo stringe ed entro il 21 settembre tutti i paesi dovranno aver ratificato il trattato. 

L’autore Luigi Cerciello Renna presenta in esclusiva un Report a sua firma che ne analizza – lontano dalla demagogia e dagli interessi di parte – gli aspetti più salienti, fornendo risposte ai vari interrogativi susseguitisi nel dibattito nazionale.

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1. OSSERVAZIONI INTRODUTTIVE

Ancora una volta la demagogia dei muri, ben attecchita nel tessuto socio-economico e politico del nostro Paese, ha animato e sta tuttora orientando la discussione pubblica su vicende che coinvolgono il sistema agroalimentare nazionale e, più segnatamente, la tutela del made in Italy.

Di fatto, il recente e aspro confronto sorto in merito all’accordo economico e commerciale globale concluso tra UE e Canada – approvato dal Parlamento europeo a metà del febbraio scorso – ha rappresentato l’ennesima occasione in cui spinte antiliberiste e anèliti protezionistici hanno preso il sopravvento in Italia ammantandosi di indispensabile partigianeria per le eccellenze nostrane.

Il ‘Comprehensive economic and trade agreement’ (meglio noto con l’acronimo “CETA”) identifica un c.d. “mixed agreement”: vuol dire che investe materie di competenza non esclusiva dell’UE ed è destinato a divenire efficace nei singoli Stati membri solo a seguito della ratifica dei parlamenti nazionali, posto che la mancata approvazione da parte anche di un solo Paese membro ne impedirà l’entrata in vigore definitiva. Da dirsi che da una nota congiunta di Commissione UE e Governo del Canada dell’8 luglio scorso – Statement/17/1959 – si apprende che, ad ogni buon conto, l’applicazione dell’intesa economica in parola scatterà provvisoriamente dal prossimo 21 settembre e, sul punto, va evidenziato che si tratta di una prassi nella ratifica degli accordi commerciali.

Sicchè, lo scorso 27 giugno la Commissione Affari Esteri del Senato italiano ha approvato il CETA e il disegno di legge di relativa ratifica approderà nell’emiciclo di Palazzo Madama entro fine estate.

E’ così montata in tutto lo Stivale una forte protesta popolare, che ha coagulato il dissenso e le accuse di politici, agricoltori, allevatori, consumatori, sindacalisti e ambientalisti. Un largo fronte del ‘no al CETA’ composto da Cgil, Arci, Adusbef, Movimento consumatori, Legambiente, Greenpeace, Slow Food, Federconsumatori, Acli terra, Fair watch e Campagna Stop Ttip italiana, sotto la regia di Coldiretti, ha dapprima organizzato un presidio in piazza del Pantheon a Roma in concomitanza giustappunto della votazione della Commissione Affari Esteri, per poi promuovere un’assai ampia mobilitazione in piazza Montecitorio, avutasi il 5 luglio scorso in prossimità della sede della Camera dei Deputati, volta a scongiurare la ratifica di un accordo che, ad avviso dei dimostranti, sarebbe suscettibile di indebolire la difesa di ambiente e salute, di aggredire il mercato dei prodotti identitari nazionali e di provocare pesanti perdite occupazionali.

Levata di scudi anche per le Regioni Lazio, Veneto, Marche, Lombardia e Puglia, nonchè per alcuni leader e rappresentanti di partiti nazionali, che hanno pubblicamente condiviso il grido d’allarme contro il CETA. E tanti sono stati i Sindaci e i componenti delle Amministrazioni di grandi e piccoli Comuni che hanno deciso, – ora sollecitati proprio dalle Organizzazioni in protesta, ora autonomamente – di affiancare le sigle manifestanti. A questo punto, peraltro, tutto lascia presumere che le voci della contestazione siano destinate a moltiplicarsi nel tempo.

Ebbene, se da un lato occorre osservare che la coalizione di portatori d’interesse che ha innescato la protesta è assolutamente inedita, dall’altro va detto che le motivazioni alla base del malcontento sceso in piazza richiamano il solito canovaccio, a torto o a ragione, della cogenza di interventi che fermino o contengano la perdita di spazio di mercato che subiscono o patirebbero i produttori locali italiani e dell’ineluttabilità delle barricate da erigere contro i puntuali ostacoli sul versante internazionale alla qualità e all’identità dei prodotti tipici del Bel Paese.

Ecco, dunque, che i detrattori del CETA denunciano il rischio che l’accordo assicuri una sorta di legalizzazione della pirateria alimentare, consentendo al Canada di utilizzare libere traduzioni dei nomi dei cibi di casa nostra e di ricorrere alle espressioni “tipo; stile o imitazione”. Puntano poi il dito contro le migliaia di tonnellate di carne di manzo e suine d’Oltreoceano cui si spalancherebbero a dazio zero le porte del mercato interno con grave danno per gli operatori italiani nonché contro l’azzeramento strutturale del dazio per il grano canadese che determinerebbe un fatale crollo dei prezzi. E mettono in guardia dalla minaccia apportata al principio comunitario di precauzione, atteso che in Canada non vi sono misure sanitarie e fitosanitarie stringenti come quelle europee e vi ricorre un uso intensivo in agricoltura di alcuni principi chimici attivi banditi nel Vecchio Continente, citando, in particolare, il glifosato che, mentre in Italia è vietato, nel Nord America viene utilizzato per l’essicazione del grano prima della trebbiatura. Inoltre, contestano lo schema arbitrale previsto dal CETA ai fini della soluzione delle controversie tra Stati e investitori, incentrato sull’attività di una Corte internazionale ‘ad hoc’ basata su due gradi di giudizio, che non sarebbe in grado di respingere le pressioni delle multinazionali e restringerebbe la sovranità degli Stati, che si vedrebbero sottoposti al rischio di dure sanzioni per presunti danni agli interessi degli investitori allorquando decidano di adottare provvedimenti a tutela dell’ambiente o della sanità pubblica.

E, tra i tanti partigiani sfilati nell’occasione, non è mancato chi, con fascia tricolore al collo, ha affermato che con il CETA verrebbero meno la tradizione e il controllo del territorio. E che ricorre l’onere di salvaguardare la salute dei cittadini che passa per il cibo. Come pure chi ha dichiarato alla stampa che le imprese italiane vanno difese dall’attacco di mercati nei quali il liberismo regna sovrano.

Or dunque, stante che taluni focolai di dissenso si sono avuti anche in altre parti d’Europa, la prima sensazione che mi attraversa, di fronte a sì fatto contesto, è che la crociata italiana contro la ratifica del CETA abbia raccolto numerosi proseliti perchè molti sono coloro che tendono ad accordare centralità più al profilo degli organizzatori della protesta che non al merito tecnico della contesa. Ritengo, al riguardo, che si tratti di un meccanismo sociale atavico che, nelle questioni di interesse nazionale afferenti soprattutto il sistema agricolo, si ripropone ciclicamente.

E, mentre i più stanno agitando agli occhi del grande pubblico lo spettro dell’ennesimo regalo alle grandi lobby industriali dell’alimentare, le recenti ostilità contro il CETA svelano il grave rischio che la nostra agricoltura finisca con l’avvitarsi su se stessa, retrocedendo nelle dinamiche commerciali mondiali.

In Italia, di fatto, la tutela dei prodotti locali si è lentamente trasformata da priorità in ideologia e il settore primario si rivela innervato dalle tendenze neo-protezionistiche di elìte e gruppi che hanno fatto del localismo il proprio manifesto politico.

Ciò posto, a teorici ed avventori che animano il dibattito nazionale in corso, in particolare su temi agro- ambientali, gioverebbe di certo tener conto anzitutto dei correnti limiti agli scambi commerciali mondiali come pure dei dati sulla bilancia commerciale bilaterale tra Canada e UE e tra Canada e Italia. Per poi di necessità approfondire lo scenario giuridico globale in cui si colloca il CETA, scandagliando l’articolato di quest’ultimo.

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2. GLI SCAMBI COMMERCIALI GLOBALI E IL MONDO ANTIPROTEZIONISTICO DEL FONDO MONTERARIO INTERNAZIONALE

Sull’assunto che le limitazioni imposte ai traffici transfrontalieri siano un fattore di distorsione della libera concorrenza a livello globale e di rallentamento della crescita economica degli Stati, l’Organizzazione mondiale del Commercio – OMC ha stimato che dall’ottobre 2008 – cui si fa risalire il principio della crisi finanziaria, atteso il crollo della Lehman Brothers cui è seguita una fase di dura recessione caratterizzata da misure di matrice protezionistica – all’ottobre 2016, sono state introdotte nel mondo ben 2.978 misure restrittive degli scambi, delle quali sono state eliminate unicamente 740 sebbene al G20 del 2009 le Superpotenze mondiali si impegnarono per una rimozione più vasta.

In particolare, mentre nel 2010 sussistevano a livello mondiale 464 provvedimenti speciali restrittivi, a metà ottobre 2016 ne sono state registrati 2.238. Si sostanziano in larga parte nell’applicazione di tariffe all’importazione per prodotti e servizi, nell’emanazione di disposizioni afferenti la normativa sanitaria o ambientale tese a preservare i gruppi nazionali dalla concorrenza delle aziende estere e nell’adozione di procedure doganali che rendono meno agevole l’import.

La OMC ha inoltre puntualizzato che nel 2017 il volume degli scambi globali è cresciuto dell’1,7% – si tratta dell’incremento minore dal 2008 ad oggi -, precisando che si debba parlare di vero e proprio crollo allorchè i flussi siano misurati in dollari: ‘-14%’ (a 16mila miliardi) relativamente alle merci e ‘- 6%’ (a 4.754 miliardi) in tema di servizi.

Ciò posto, giova evidenziare che a metà marzo scorso, durante un intervento all’American Enterprise Institute di Washington, il Direttore del Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde, dichiarandosi a favore dei mercati aperti e della regolamentazione della finanza, ha ammonito i governi mondiali sul fatto che le politiche protezionistiche rappresentano una seria minaccia verso l’integrazione commerciale globale e la cooperazione dell’ordine economico, che hanno generato conseguenze positive su scala mondiale.

E il fatto che la risorgente ondata protezionistica – indicata come significativo rischio al ribasso – sia la zavorra di una congiuntura economica globale che nel 2017 mostra comunque incoraggianti segnali di ripresa, è stato espressamente riportato nel World Economic Outlook-WEO, diramato a metà aprile scorso, che rappresenta il rapporto sullo stato di salute dell’economia mondiale, che l’FMI ha reso pubblico in occasione della propria assemblea primaverile nella capitale degli USA.

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3. LE RELAZIONI COMMERCIALI CANADA – UE E CANADA – ITALIA

Nel 1976 le Comunità europee siglarono il primo accordo di cooperazione con un paese industrializzato: si trattava dell’accordo quadro per la cooperazione commerciale ed economica con il Canada. Quel che testimonia la risalenza storica e la portata della cooperazione instauratasi tra le dette due potenze economiche mondiali.

Siffatto accordo – che fissa le modalità per agevolare i legami economici e commerciali e favorire gli scambi e le attività congiunte tra le industrie e le società commerciali – è ad oggi uno dei tre strumenti regolatori delle relazioni tra UE e Canada. Gli sono regolate attualmente da tre strumenti principali:

– la Dichiarazione sulle relazioni transatlantiche del 1990 che ha promosso la cooperazione tra UE e Canada nei campi dell’istruzione, della ricerca scientifica, dello sviluppo tecnologico prevedendo uno stabile dialogo politico;

– la Dichiarazione congiunta sulle relazioni UE-Canada e il Piano d’azione congiunto del 1996 che fissano i criteri generali delle relazioni e identificano ulteriori ambiti di cooperazione, dalle relazioni economiche e commerciali alla politica estera e di sicurezza, dalla collaborazione su criticità globali (ambiente, aiuti umanitari) al contrasto della criminalità organizzata e del traffico di stupefacenti.

In occasione poi del vertice bilaterale di Ottawa del 18 marzo 2004, è stata adottata l’Agenda del partenariato UE-Canada con cui è stato ribadito l’attaccamento a istituzioni multilaterali e all’idea di una governance mondiale, rilanciando l’impegno comune in tema di giustizia, politica estera, sicurezza dei 3

cittadini, comune, cambiamento climatico, lotta alla povertà nei paesi in via di sviluppo e a favore dell’espansione economica mondiale con la promozione di un ciclo di negoziati commerciali multilaterali.

Nel 2005 è stato firmato un accordo sulla partecipazione del Canada alle missioni UE di gestione delle crisi. I Canadesi hanno preso parte alla missione comunitaria EUPOL per l’attività di formazione della polizia afgana, alla missione EUPOL COPPS in Palestina e alla missione EULEX in Kosovo.

Ciò posto, stando ai dati ultimi ufficiali, nel 2015 l’UE è stata il 2° partner commerciale del Canada, dopo gli Stati Uniti, rappresentando circa il 9,5 % del totale delle esportazioni e importazioni di merci del Canada.

Nel 2016, quanto agli scambi di merci, l’UE ha esportato verso il Canada per 35,2 miliardi di euro e ha importato dal Canada per un valore di 29,1 miliardi di euro. Al riguardo, nel 2016 il Canada è risultato il 10° partner commerciale internazionale dell’UE.

Quanto invece ai servizi, l’UE ha esportato verso il Canada per 18 miliardi di euro e ha importato dal Canada per un valore di 12,1 miliardi di euro. Al riguardo, nel 2016 il Canada è risultato il 10° partner commerciale internazionale dell’UE.

In termini, poi, di investimenti esteri diretti (IED), l’UE ha investito in Canada più di quanto il Canada non abbia investito nell’UE. Nel 2015 gli stock di IED dell’UE destinati al Canada sono stati pari a 249,2 miliardi di euro. Gli stock canadesi nell’UE sono stati valutati pari a 228,1 miliardi di euro.

Dopo aver inquadrato le relazioni economiche tra Canada e UE, giova ora approfire gli ultimi dati ufficiali messi a disposizione dalla Commissione Europea, aggiornati al 2015, sugli scambi bilaterali tra il Canada e l’Italia: risulta che essi ammontano a 7 miliardi di euro. Nel merito, gli italiani esportano in Canada per un valore complessivo di 5,1 miliardi di euro, mentre i canadesi esportano in Italia per un totale di 1,9 miliardi di euro.

Le esportazioni italiane in Canada di alimenti trasformati hanno toccato la cifra complessiva di 528 milioni di euro. In particolare, 40 milioni di euro è il valore relativo ai prodotti lattiero-caseari, per i quali l’Italia è il maggior esportatore europeo in Canada, dove altresì esportiamo acque minerali per 39 milioni di euro e vino per 300 milioni di euro.

Se si guarda, dunque, ai vari settori dell’area agroalimentare, escludendo il comparto vitivinicolo, essi ingenerano un flusso di scambi assolutamente di rilievo, ma inferiore al volume originato dalle nostre esportazioni di macchinari e prodotti elettrici, veicoli a motore e pezzi di ricambio, abbigliamento e calzature, materiali lapidei e ceramici, nautica e diporto, arredamento, prodotti chimici, farmaci e pellami. Di fatto, l’agroalimentare italiano vive in terra canadese un trend decisamente positivo, ma pur sempre contenuto dalle disparate barriere commerciali previste dallo specifico ordinamento d’Oltreoceano.

Resta che, da ultimo censimento, le importazioni di merci dall‘Italia verso il Canada sono aumentate del ‘+15 %’ in un anno, mentre l’ingresso di beni e merci canadesi nel Bel Paese ha accusato un calo di valore del ‘-45 %’.

Altresì, il valore delle esportazioni italiane di servizi in Canada è pari a 1,4 miliardi di euro e, in particolare, eccellono le telecomunicazioni, i servizi assicurativi e pensionistici e quelli di ingegneria. Mentre i canadesi esportano servizi in Italia per 424 milioni di euro.

Là ove poi ci si soffermi sugli investimenti diretti esteri italiani in Canada, risulta che essi ammontano a 1,7 miliardi di euro, mentre quelli diretti esteri canadesi in Italia sono pari a 306 milioni di euro.

Ad ogni buon conto, il Canada è il 9^ maggior partner commerciale extra-UE del nostro Paese per quanto concerne i servizi e il 15^ relativamente alle merci, nonché è la 17^ destinazione più importante per gli investimenti diretti esteri italiani al di fuori dell’UE.

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4. IL CETA QUALE STRUMENTO DEL DIRITTO GLOBALE TRA PRINCIPIO DEL SINGLE UNDERTAKING E MODERNA POLITICA COMMERCIALE DELL’UE

La mattina del 15 febbraio scorso l’Assemblea parlamentare europea ha approvato l’Accordo economico e commerciale globale (CETA) con il Canada, ad esito di 408 voti favorevoli, 254 contrari e 33 astenuti e a oltre 7 anni dall’inizio dei negoziati che hanno preso avvio nel maggio 2009 (conclusisi nell’agosto 2014).

Si tratta di un copioso documento articolato in 30 capitoli per un totale di 1598 pagine, unitamente a numerosi allegati.

Il Trattato in parola viene spesso indicato con il termine di “accordo di nuova generazione”, tuttavia senza che si colgano fino in fondo o comunque divulghino le motivazioni alla base di tale definizione, che invece consentirebbero di contestualizzarlo più opportunamente.

In vero, è stata la Comunicazione della Commissione Europea del 9 novembre 2010 dal titolo “Commercio, crescita e affari mondiali” ad avere formalizzato l’individuazione del commercio internazionale come uno dei cardini della Strategia “Europa 2020” varata nello stesso anno per «creare le condizioni favorevoli a una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva» della Comunità. Da lì a 5 anni, la Comunicazione del 14 ottobre 2015 “Commercio per tutti – Verso una politica commerciale e di investimento più responsabile” aggiornerà la politica commerciale europea riconoscendola come la fonte di crescita più importante del futuro, stimando che circa il 90% dello sviluppo economico globale nei prossimi 10-15 anni sarà generato fuori dal Vecchio Continente.

Posta tale priorità, l’arenarsi dei negoziati multilaterali OMC sull’agenda di Doha per lo sviluppo ha indotto l’Europa ad elaborare o ricorrere a strumenti alternativi per assicurare un efficace sostegno agli Stati membri nell’accesso ai mercati dei Paesi terzi. Proprio a tal fine, l’UE ha deciso di intraprendere prioritariamente un nuovo ordine di intese globali per il libero scambio, che è del tutto evidente si differenzino dai pregressi schemi negoziali per l’ambito di intervento, che, non più circoscritto alla riduzione di restrizioni commerciali e barriere non tariffarie, coinvolge anche altri, fondamentali settori, come gli appalti pubblici, la concorrenza, lo sviluppo sostenibile, gli investimenti e la protezione della proprietà intellettuale.

Il primo di tali accordi economici globali è stato concluso nell’ottobre 2015 con un Paese asiatico, la Corea del Sud, applicato provvisoriamente dal luglio 2011 e successivamente ratificato da tutti gli Stati membri dell’UE. Si contano poi l’Accordo commerciale multilaterale tra Unione Europea e Perù e Colombia (firmato nel giugno 2012 e applicato in via provvisoria dal 2013), l’Accordo di associazione con i Paesi dell’America Centrale (Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Honduras, Nicaragua e Panama) per il dialogo politico, la cooperazione e il commercio (firmato nel giugno 2012 e applicato provvisoriamente – per l’ambito commerciale – dal 2013) l’Accordo di libero scambio con-Singapore (siglato nel 2013 e i cui negoziati si sono conclusi nel 2014) e l’Accordo di libero scambio con il Vietnam (siglato nel 2012 e i cui negoziati si sono conclusi alla fine del 2015).

E’ in siffatto scenario, pertanto, che si inserisce il CETA, sottoscritto il 30 ottobre 2016, durante il XVI Vertice Bilaterale UE-Canada, dal primo ministro canadese Trudeau, dai presidenti del Consiglio e della Commissione dell’UE Tusk e Juncker, nonchè dal primo Ministro slovacco Fico (alla presidenza di turno del Consiglio europeo).

I negoziati con il Canada sono rientrati in un imponente programma dell’UE volto or sono ad aprire reciprocamente i mercati con i propri più importanti partner commerciali bilaterali, in una fase storica, peraltro, in cui l’azione multilaterale lanciata nel 2001 dal ‘Round dello sviluppo’ di Doha ha lambito il fallimento, così che si sono venute ad acuire su scala mondiale le contrapposizioni sui temi, tra gli altri, dei sussidi all’agricoltura e della sicurezza alimentare.

Ebbene, il CETA va di necessità collocato nel quadro istituzionale e giuridico mondiale, ponendosi come strumento del diritto globale.

Peraltro, giammai si tralasci che UE e Canada fanno parte, insieme con Stati Uniti e Giappone, del c.d. “Quadrilateral Group”, il collegio ristretto dei Ministri del commercio delle quattro tradizionali, principali potenze economiche al mondo, costituitosi nel 1982. Fu proprio il Canada, nell’estate del 1990, in occasione di una riunione del “Quad”, a rilevare formalmente l’opportunità – formulando la relativa proposta, accolta con favore dall’UE – che la disciplina del GATT ormai ritenuta superata (aderiva infatti alle condizioni mondiali al tempo della stipula, avvenuta nel 1947 tra circa venti Paesi) fosse da modificare alla luce dei mutamenti strutturali della comunità internazionale e delle intese derivanti dai pluriennali negoziati multilaterali susseguitisi per più di quarant’anni, dando vita ad una organizzazione internazionale solida e permanente che fosse in grado di assicurare un vasto ed efficace sistema regolatorio degli scambi mondiali. In pratica, fu il Canada la prima nazione a proporre la costituzione dell’OMC, che si avrà nel 1994 con la sottoscrizione a Marrakech, in Marocco, dell’Atto finale che recepiva gli esiti dei negoziati dell’Uruguay Round, da parte di 128 “Contracting Parties”. Tra questi, la Commissione delle Comunità Europee.

E sin dal principio, dunque, l’UE, cui fu riconosciuto lo status di ‘membro originario’ ai sensi dell’art. XI dell’Accordo istitutivo dell’OMC, si è giuridicamente vincolata al rispetto delle prescrizioni e degli impegni discendenti dal diritto commerciale multilaterale e al riconoscimento del primato degli oneri assunti in sede internazionale rispetto alla regolamentazione interna.

Ciò, in forza del principio del c.d. “single undertaking” (in senso letterale “presa unica”), previsto dall’art. II dell’Accordo istitutivo, in base al quale ogni Paese aderente all’Organizzazione mondiale del commercio è tenuto ad accettare tutti gli strumenti giuridici e gli accordi commerciali plurilaterali stipulati alla fine dei negoziati dell’Uruguay Round.

Si noti pure che, sempre nell’Atto istitutivo dell’OMC, l’art. XVI al par. 4 statuisce espressamente che «ciascun Membro garantisce la conformità delle proprie leggi, dei propri regolamenti e delle proprie procedure amministrative con gli obblighi che gli incombono conformemente a quanto previsto negli Accordi allegati».

Per inciso, in Italia, la ratifica e l’esecuzione degli atti concernenti i risultati dei negoziati dell’Uruguay Round sono state disposte con la Legge n. 747 del 29 dicembre 1994.

Ecco così palesarsi la realtà sottesa ad alcuni brevi riferimenti contenuti nel Capitolo 1 del CETA, rubricato “Definizioni generali e disposizioni iniziali”.
Si pensi all’art. 1.5 – intitolato “Rapporto con l’accordo OMC e con altri accordi” – secondo il quale «le Parti riaffermano i loro diritti ed obblighi reciproci a norma dell’accordo OMC e di altri accordi di cui sono firmatarie».

Mentre, a precederlo, l’art. 1.4 contiene l’espresso richiamo alle disposizioni del GATT 1994 (ossia l’Accordo Generale sulle Tariffe ed il Commercio nella versione aggiornata a seguito dei negoziati di Punta del Este che hanno costituito l’OMC) e del GATS (ossia, l’Accordo generale sul commercio dei servizi allegato al trattato istitutivo dell’OMC) quale articolato cui si conformano Canada e UE nell’istituzione a mezzo del CETA di una zona di libero scambio, intendendo per essa quella forma di integrazione economica fra Stati, prevista giustappunto del menzionato insieme di norme, con cui questi istituiscono un’area in cui sono eliminati i dazi doganali e le altre barriere non tariffarie relativamente a tutti gli scambi commerciali dei prodotti originari dell’area stessa.

E la riaffermazione degli impegni presi in ambito OMC è presente anche nella parte dedicata alle misure sanitarie e fitosanitarie, come sarà argomentato più avanti.
Peraltro, scorrendo il testo generale del CETA, si rivela frequente e ben riconoscibile il ricorso alla “normazione delegata” – che in vero corrisponde ad una prassi del diritto OMC -, atteso che diverse prescrizioni dell’Accordo UE-Canada si realizzano attraverso il rinvio agli atti di altri organismi internazionali.

Ciò posto, è d’uopo precisare che il perfezionamento del CETA da parte dell’UE, come nel caso degli altri accordi di libero scambio, è avvenuto a seguito della regolare applicazione dell’iter procedurale proprio dell’Ordinamento comunitario.

Si volga anzitutto lo sguardo al Titolo II rubricato “Politica commerciale comune” del Trattato sul funzionamento dell’UE. Può osservarsi in primo luogo che l’art. 206 stabilisce espressamente che l’Unione «contribuisce nell’interesse comune allo sviluppo armonioso del commercio mondiale, alla graduale soppressione delle restrizioni agli scambi internazionali e agli investimenti esteri diretti e alla riduzione delle barriere doganali e di altro tipo».

Il successivo art. 207 richiede, al par. 1, che «la politica commerciale comune sia fondata su principi uniformi, in particolare per quanto concerne le modificazioni tariffarie, la conclusione di accordi tariffari e commerciali relativi agli scambi di merci e servizi, e gli aspetti commerciali della proprietà intellettuale, gli investimenti esteri diretti, l’uniformazione delle misure di liberalizzazione, la politica di esportazione e le misure di protezione commerciale, tra cui quelle da adottarsi nei casi di dumping e di sovvenzioni», aggiungendo che «la politica commerciale comune è condotta nel quadro dei principi e obiettivi dell’azione esterna dell’Unione». Al co. 3 si precisa poi che «la Commissione presenta raccomandazioni al Consiglio, che l’autorizza ad avviare i negoziati necessari. Spetta al Consiglio e alla Commissione adoperarsi affinché gli accordi negoziati siano compatibili con le politiche e norme interne dell’Unione», specificando ulteriormente che i negoziati sono condotti dalla Commissione, in consultazione con un comitato speciale designato dal Consiglio e riferendo periodicamente al comitato speciale e al Parlamento europeo sui progressi dei negoziati.

Proseguendo, è l’art. 218 del Titolo V “Accordi Internazionali” a stabilire la procedura secondo cui vanno negoziati e conclusi gli accordi tra l’Unione e i Paesi terzi o le Organizzazioni internazionali (par. 1), soffermandosi anzitutto sul ruolo del Consiglio, cui spetta autorizzare l’avvio dei negoziati, definire le direttive di negoziato, autorizzare la firma e concludere gli accordi (par. 2), potendo impartire direttive al negoziatore e designare un comitato speciale che deve essere consultato nella conduzione dei negoziati (par. 4). Altresì, il Consiglio, su proposta del negoziatore, adotta una decisione che autorizza la firma dell’accordo e, se del caso, la sua applicazione provvisoria prima dell’entrata in vigore (par. 5) e, su proposta del negoziatore, adotta una decisione relativa alla conclusione dell’accordo (par. 6). Sempre al par. 6, l’art. 218 prevede che, ad eccezione delle materie della politica estera e della sicurezza comune, il Consiglio adotta la decisione di conclusione dell’accordo previa approvazione del Parlamento europeo (da consultarsi, invece, nelle altre ipotesi non espressamente indicate) nei casi di accordi di associazione, accordo sull’adesione dell’Unione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, accordi di organizzazione delle procedure di cooperazione, accordi con ripercussioni finanziarie considerevoli per l’Unione e quelli relativi a settori cui si applica la procedura legislativa ordinaria oppure la procedura legislativa speciale qualora sia necessaria l’approvazione del Parlamento europeo. In caso d’urgenza, Parlamento e Consiglio UE possono concordare un termine per l’approvazione.

Or dunque, là ove si faccia riferimento alla documentazione prodotta dal Governo italiano con riferimento al CETA e segnatamente all’Analisi di impatto della regolazione all’uopo predisposta, si ricava espressamente che, in ambito comunitario, il Consiglio europeo ha conferito mandato alla Commissione, che ha condotto i negoziati con il Canada in nome dell’Unione e degli Stati membri, che sono stati costantemente informati dell’andamento dei lavori.

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5. IL CETA E LE MISURE SANITARIE E FITOSANITARIE: UE E CANADA RIAFFERMANO DIRITTI E OBBLIGHI DERIVANTI DALL’ORDINAMENTO GLOBALE

IL CETA dedica l’intero Capitolo 5 intitolato “Misure sanitarie e fitosanitarie” alla sicurezza alimentare e alla salute di animali e piante.

L’art. 5.2 definisce gli obiettivi perseguiti al riguardo dal CETA, che si sostanziano nella protezione della vita o della salute dell’uomo, degli animali e delle piante agevolando nel contempo gli scambi commerciali e nella garanzia che le misure sanitarie e fitosanitarie previste dall’Accordo “SPS” in ambito OMC, adottate dalle Parti, non creino ostacoli ingiustificati agli scambi, ma anzi ne favoriscano l’attuazione.

L’art. 5.3 stabilisce che le disposizioni del Capitolo 5 si applicano alle misure “SPS” che possano, direttamente o indirettamente, incidere sugli scambi tra le parti.

Mentre l’art. 5.4 prevede che con il CETA «le Parti riaffermano i loro diritti e obblighi derivanti dall’accordo SPS».

Dunque, assurge a pietra d’angolo del CETA quello che, solitamente indicato con l’acronimo “SPS”, è uno dei più importanti strumenti giuridici dell’Accordo istitutivo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, vale a dire il “Sanitary and Phytosanitary Agreement” (Accordo sulle misure sanitarie e fitosanitarie), che corrisponde a finalità regolatorie su scala globale delle restrizioni del commercio internazionale causate dai provvedimenti dei singoli Stati in materia di salvaguardia della salute umana, animale e vegetale. In base a quanto previsto da siffatto documento, tali misure c.d. “trade-restrictive”, aventi ragioni di tutela pubblica in specifici settori ma limitative degli scambi, sono ammesse a condizione che non sottendano un’azione protezionistica a vantaggio degli operatori interni e che siano suffragate da dimostrazioni scientifiche e standard internazionali riconosciuti.

Si è già detto che l’UE (come l’Italia) e il Canada, in quanto componenti dell’OMC, sono tenuti al rispetto delle statuizioni dell’Accordo “SPS”, atteso che quest’ultimo rientra nel cumulo di norme inscindibili del diritto commerciale internazionale formatosi nel 1994, ai cui obblighi ciascun Membro deve simultaneamente conformarsi.

Approfondendo il tessuto normativo del “Sanitary and Phytosanitary Agreement”, si noti in particolare che l’art. 2 sancisce che gli Stati membri «fanno in modo che le misure sanitarie e fitosanitarie siano applicate soltanto nella misura necessaria ad assicurare la tutela della vita o della salute dell’uomo, degli animali o dei vegetali, siano basate su criteri scientifici e non siano mantenute in assenza di sufficienti prove scientifiche» (co. 2) e che tali provvedimenti non devono comportare «una discriminazione arbitraria o ingiustificata tra i membri in cui esistono condizioni identiche o analoghe, in particolare tra il loro territorio e quello degli altri membri» aggiungendo che le misure in parola «non si applicano in modo tale da costituire una restrizione dissimulata dal commercio internazionale» (co. 3).

Il dettato normativo qui riportato individua chiaramente i requisiti richiesti in ambito internazionale ai provvedimenti di matrice sanitaria e fitosanitaria: deve trattarsi di misure tecniche ‘necessarie’, dunque senza che contemplino soluzioni alternative parimenti efficaci e meno restrittive, nonché ‘scientificamente fondate’ e ‘non discriminatorie’. Inoltre, la vigenza delle misure in parola è destinata a interrompersi allorquando non ricorra un oggettivo nesso di causalità tra provvedimento assunto e dimostrazione scientifica prodotta.

Il successivo art. 3 co. 1 stabilisce che «al fine di armonizzare le misure sanitarie e fitosanitarie su una base quanto più ampia possibile, i membri fondano le loro misure sanitarie o fitosanitarie su norme, direttive o raccomandazioni internazionali».

Su quest’ultimo punto, l’Accordo “SPS” non si limita ad una indicazione generica dei fondamenti giuridici di tali provvedimenti, in quanto, al Capo “Definizioni” dell’Allegato “A”, dopo che al punto 2 qualifica il principio-obiettivo della c.d. “armonizzazione” come «istituzione, riconoscimento e applicazione di misure sanitarie e fitosanitarie comuni da parte di membri diversi», provvede a definire al punto 3 quali debbano ritenersi le “norme, direttive e raccomandazioni internazionali” indicando al riguardo: – in tema di sicurezza alimentare, quelle «stabilite dalla commissione del Codex alimentarius (Commissione intergovernativa istituita nel 1963 dalla FAO) in materia di additivi alimentari, residui di medicinali veterinari e di antiparassitari, contaminanti, metodi di analisi e campionamento, nonché i codici e gli orientamenti in materia di igiene» (lett. a); – quanto alla salute degli animali e le zoonosi, quelle «elaborate sotto gli auspici dell’Ufficio internazionale delle epizoozie [dal 2003 si chiama Organizzazione mondiale della sanità animale]» (lett. b); – quanto alla salute dei vegetali, quelle «elaborate sotto gli auspici del segretariato della Convenzione internazionale per la difesa dei vegetali in collaborazione con le organizzazioni regionali operanti nel quadro della medesima Convenzione» (lett. c); – per le questioni non disciplinate dalle richiamate Organizzazioni, quelle – previste espressamente come “appropriate” – che siano state «emanate da altre competenti organizzazioni internazionali cui possono aderire tutti i membri, individuate dal Comitato misure sanitarie e fitosanitarie [istituito dall’art. 12]» (lett. d).

Vieppiù che l’art. 4 dell’Accordo “SPS” introduce il “principio di equivalenza”. La disposizione de qua sancisce che un membro OMC «accetta come equivalenti le misure sanitarie o fitosanitarie degli altri membri, anche se esse differiscono dalle proprie o da quelle applicate da altri membri che commerciano nello stesso prodotto, se il membro esportatore dimostra oggettivamente al membro importatore che le sue misure raggiungono il livello di protezione sanitaria o fitosanitaria ritenuto appropriato dallo stesso membro importatore. A tale scopo quest’ultimo otterrà su richiesta l’accesso necessario per ispezioni, prove e altre pertinenti procedure» (co. 1).

In pratica, il diritto globale prevede la possibilità che strumenti diversi garantiscano il raggiungimento del medesimo livello di protezione. In tal senso, non osta che il Paese esportatore abbia adottato provvedimenti sanitari e fitosanitari non sovrapponibili a quelli vigenti nello Stato importatore, a condizione che il primo dimostri che si tratti di misure equivalenti, ossia connotate da invarianza dei risultati (segnatamente, che determino l’appropriato livello di salvaguardia di quel Paese ove siano destinati beni e merci).

Ebbene, il CETA recepisce siffatto principio all’art. 5.6 intitolato “Equivalenza”.

Su tale punto, i detrattori dell’intesa economica tra UE e Canada sostengono che sarebbe così consentito ai nordamericani di conseguire il c.d. ‘reciproco riconoscimento’ (si tratta di un principio comunitario di derivazione giurisprudenziale, secondo cui ogni Stato UE è tenuto ad accettare, anche se non corrispondono alle proprie disposizioni e standard, i prodotti legalmente fabbricati e commercializzati in un altro Stato membro) e di sottrarsi ai controlli nel Vecchio Continente.

Invece, occorrerebbe prendere coscienza anzitutto che il CETA riproduce un criterio regolatore alla base del diritto OMC e, inoltre, che l’intesa de qua non introduce alcun automatismo normativo in capo a UE e Canada, prevedendo che «la Parte importatrice accetta l’equivalenza delle misure SPS adottate dalla Parte esportatrice se quest’ultima dimostra in modo obiettivo alla parte importatrice che le proprie misure raggiungono il livello appropriato di protezione sanitaria e fitosanitaria della parte importatrice».

Peraltro, al momento della firma del CETA, l’UE e il Canada hanno adottato uno “Strumento interpretativo comune – SIC”, che, a tenore dell’art. 31 par. 2 lettera b) della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, rappresenta un documento di riferimento cui fare ricorso all’insorgere di contrasti nell’attuazione del CETA in fatto di interpretazione dei suoi termini, connotato a tal fine da forza giuridica e carattere vincolante.

Sicchè, approfondendo l’articolato del SIC in parola, si osserva anzitutto che al punto 2 – intitolato “Diritto di legiferare” – si afferma che «il CETA preserva la capacità dell’Unione europea e dei suoi Stati membri e del Canada di adottare e applicare le rispettive disposizioni legislative e regolamentari che disciplinano l’attività economica nell’interesse pubblico al fine di conseguire obiettivi legittimi di politica pubblica» ricomprendendo, tra questi ultimi, «la protezione e la promozione della sanità pubblica» nonché «la sicurezza dell’ambiente».

Si tratta, a mio avviso, di un passaggio fondamentale, atteso che viene qui sancito l’espresso impegno delle Parti, giuridicamente valido, a far sì che il CETA salvaguardi e comunque non intacchi gli standard normativi domestici in tema tra l’altro di protezione sanitaria e ambientale.

Allo stato del documento in commento, è legittimo sostenere che, all’indomani della ratifica dell’Accordo di libero scambio, i canadesi non saranno abilitati ad importare nel Vecchio Continente sostanze e composti vietati nell’UE o, quantomeno, il dubbio che ciò invece avvenga è revocato dalle previsioni poc’anzi descritte.

Atteso tutto quanto precede, vien legittimo chiedersi, poiché non formalmente richiamato nelle disposizioni sin qui descritte, come e dove si collochi quel “principio di precauzione” che il folto coro di voci sfavorevoli al CETA individua come la più grande vittima dell’intesa economica in questione.

Secondo lo schieramento contestatore, l’Unione Europea avrebbe mortificato, quando non addirittura rinnegato, la logica cautelativa che incardina da anni la propria attività legislativa e regolativa nelle politiche sanitarie e agro-ambientali, ivi ricomprese le disposizioni sulla circolazione dei beni alimentari.

Or bene, sembra proprio che ai più sfugga che il modello di principio di precauzione, così come oggi invocato dalla piazza, tipizzi soltanto l’impianto normativo comunitario, esegeticamente sostenuto dalla Corte di giustizia, mentre nell’ambito del diritto globale, cui va necessariamente ricollegato il CETA, ne sussistono differenti formulazioni giuridiche e modalità di implementazione.

Il dibattito in questione, dunque, parrebbe far emergere, sul punto, una diffusa ed errata concettualizzazione degli accordi commerciali multilaterali, che è inevitabilmente destinata ad alimentare significative fratture sociali.

Di fatto, da un lato vige un approccio precauzionale non simmetrico tra la legislazione europea e il corpus di norme che regolano il mercato mondiale. Dall’altro, ampi strati della popolazione, nel rapportarsi agli scenari economici globali, scontano una sorta di mancato affrancamento dallo schema prudenziale di tradizionale riferimento europeo.

Insomma, le regole di ingaggio del commercio mondiale sono diverse da quelle europee, ma nel sentire comune, su cui tanto influiscono le pubbliche rivendicazioni nanometriche di vari gruppi e organizzazioni, qualunque misura o decisione internazionale che non corrisponda ai criteri e agli standard ‘domestici’ assurge ad un’aberrazione giuridica che da oltre confine attenta alla nostra economia.

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6. IL PRINCIPIO DI PRECAUZIONE: LE DUE VARIANTI UE-OMC E L’INESPLORATO PUNTO DI CONVERGENZA NORMATIVA IN TEMA DI SICUREZZA ALIMENTARE

A ciò giunti, la presente indagine richiede di approfondire quelle che sono definibili come le ‘due varianti’ del principio di precauzione, facenti rispettivamente capo agli assetti normativi di UE e OMC.

In ambito comunitario, si tratta di un principio di portata generale, introdotto dal Trattato di Maastricht del 1992 (art. 130R del Titolo XVI “Ambiente”) e ripreso dal Trattato di Amsterdam del 1997 (art. 174 del Titolo XIX “Ambiente”), che oggi è cristallizzato all’art. 191 del Titolo XX “Ambiente” del Trattato sul funzionamento dell’UE (in ultimo modificato dall’articolo 2 del Trattato di Lisbona del 2007), che, al comma 2, dispone che «la politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell’Unione. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio ‘chi inquina paga’».

Per inciso, nell’ordinamento italiano, il principio de quo è stato codificato dall’art. 301 del d.lgs. n. 152/2006 “Norme in materia ambientale”, che reca un esplicito rinvio all’art. 174 Trattato CE (oggi art. 191).

Ciò posto, si noti che il testo giuridico a fondamento del sistema politico UE si limita ad un richiamo generico del principio di precauzione circoscrivendone il riferimento al tema della protezione ambientale e, soprattutto, senza fornirne una precipua definizione. Sicchè, con una Risoluzione del 13 aprile 1999, il Consiglio europeo ha chiesto alla Commissione di sviluppare «in via prioritaria orientamenti chiari ed efficaci per l’applicazione del principio di precauzione». Di qui, con la Comunicazione nr. 2000/1 sul principio di precauzione datata 2 febbraio 2000, la Commissione europea ha di fatto riconosciuto la ‘forza espansiva’ del principio de quo sancendo che esso « non è definito dal Trattato che ne parla esplicitamente solo in riferimento alla protezione dell’ambiente. Tuttavia, in pratica, la sua portata è molto più ampia e trova applicazione in tutti i casi in cui una preliminare valutazione scientifica obiettiva indica che vi sono ragionevoli motivi di temere che i possibili effetti nocivi sull’ambiente e sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante possano essere incompatibili con l’elevato livello di protezione prescelto dalla Comunità» (p. 3 del ‘Sommario’).

Secondo la Commissione «il fatto di invocare o no il principio di precauzione è una decisione esercitata in condizioni in cui le informazioni scientifiche sono insufficienti, non conclusive o incerte e vi sono indicazioni che i possibili effetti sull’ambiente e sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante possono essere potenzialmente pericolosi e incompatibili con il livello di protezione prescelto» (p. 1 ‘Introduzione’). Precisa poi che «l’applicazione del principio di precauzione appartiene alla gestione del rischio, quando l’incertezza scientifica non consente una valutazione completa di tale rischio e i responsabili ritengono che il livello prescelto di protezione dell’ambiente o della salute umana, animale o vegetale possa essere minacciato» (p. 5 ‘Il principio di precauzione nelle sue componenti’) e, nell’escludere espressamente ogni caso che legittimi l’adozione di decisioni arbitrarie, puntualizza che «il ricorso al principio di precauzione interviene unicamente in un’ipotesi di rischio potenziale, anche se questo rischio non può essere interamente dimostrato, o la sua portata quantificata o i suoi effetti determinati per l’insufficienza o il carattere non concludente dei dati scientifici» (p. 5.1 ‘I fattori che attivano il ricorso al principio di precauzione’).

Ancora, nella Comunicazione de qua, la Commissione afferma che «la mancanza di prove scientifiche dell’esistenza di un rapporto causa/effetto, un rapporto quantificabile dose/risposta o una valutazione quantitativa della probabilità del verificarsi di effetti negativi causati dall’esposizione non dovrebbero essere utilizzati per giustificare l’inazione» (p. 6.2 ‘Il fattore che attiva il ricorso al principio di precauzione’).

E prosegue precisando che «le misure debbono essere mantenute finché i dati scientifici rimangono insufficienti, imprecisi o non concludenti e finché il rischio sia ritenuto sufficientemente elevato per non accettare di farlo sostenere alla società» (p. 6.3.5 ‘L’esame dell’evoluzione scientifica’).

Ferma stante la fondamentale Comunicazione in parola, vale la pena volgere uno sguardo in particolare al diritto alimentare europeo, più segnatamente alla relativa legge-quadro, rappresentata dal Regolamento (CE)

n.178/2002 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2002. Attesa la definizione ivi contenuta del ‘rischio’ come «la funzione della probabilità e della gravità di un effetto nocivo per la salute, conseguente alla presenza di un pericolo» (p. 9, art. 3), si osservi che alla Sezione IV “Requisiti generali della legislazione alimentare”, l’art. 14 rubricato “Requisiti di sicurezza degli alimenti” stabilisce perentoriamente che «gli alimenti a rischio non possono essere immessi sul mercato» (co. 1), curando di precisare i casi in cui gli alimenti stessi vanno considerati a rischio, ossia «se sono dannosi per la salute» (lett. a) co. 2) o «se sono inadatti al consumo umano» (lett. b), co. 2). Il successivo art. 15 rubricato “Requisiti di sicurezza dei mangimi” sancisce che «i mangimi a rischio non possono essere immessi sul mercato né essere somministrati a un animale destinato alla produzione alimentare» (co. 1), specificando poi al co. 2 che i mangimi vanno considerati a rischio, per l’uso previsto, «se hanno un effetto nocivo per la salute umana o animale» o «se rendono a rischio, per il consumo umano, l’alimento ottenuto dall’animale destinato alla produzione alimentare».

E, allorquando «ritengano o abbiano motivo di ritenere» che un alimento o un mangime non sia conforme ai requisiti di sicurezza previsti dai citati artt. 14 e 15, gli operatori del settore devono adoperarsi per «avviare immediatamente procedure per ritirarlo e informarne le autorità competenti» e, nell’ipotesi che il prodotto sia giunto ai consumatori, è stabilito, da un lato, che questi vanno informati del motivo del ritiro e, dall’altro, vanno richiamati i prodotti già somministrati agli utenti quando altri provvedimenti si rivelino insufficienti ad assicurare un livello elevato di tutela della salute: è quanto emerge testualmente dalla lettura combinata degli artt. 19 e 20.

Or bene, è nell’assunto secondo cui la certezza tecnico-scientifica non rivesta il carattere di assioma ai fini dell’adozione di misure pubbliche di protezione, che insiste il precipitato giuridico dei numerosi pronunciamenti (da inizio di questo secolo) del Giudice comunitario in materia di azione precauzionale, che hanno di fatto orientato il Legislatore europeo. Volendo considerare una delle più recenti sentenze della Corte di Giustizia UE, la nr. C-282/15 del 19 gennaio 2017 adottata dalla Sez. IV (nell’ambito di una controversia tra la “Queisser Pharma” e la Repubblica federale di Germania in merito ad una richiesta di deroga al divieto di produrre ed immettere sul mercato un integratore alimentare contenente l’aminoacido L- istidina), essa dapprima afferma che «un’applicazione corretta del principio di precauzione presuppone l’individuazione delle conseguenze potenzialmente negative per la salute delle sostanze o degli alimenti interessati e una valutazione complessiva del rischio per la salute basata sui dati scientifici disponibili più affidabili e sui risultati più recenti della ricerca internazionale» (con esplicito richiamo, sul punto, alle sentenze del 9.9.2003, Monsanto Agricoltura Italia vs PdCM, C-236/01, nonché del 28.1.2010, Commissione vs Francia, C-333/08). Per poi statuire che «ove risulti impossibile determinare con certezza l’esistenza o la portata del rischio asserito a causa della natura insufficiente, non concludente o imprecisa dei risultati degli studi condotti, ma persista la probabilità di un danno reale per la salute nell’ipotesi in cui il rischio si realizzasse, il principio di precauzione giustifica l’adozione di misure restrittive, purché esse siano non discriminatorie e oggettive».

Dunque, alla luce dell’indirizzo della Commissione e nel fare capo alla posizione espressa reiteratamente negli anni dalle Corti europee in materia, passando per il riferimento alla “risk regulation” che fonda il processo regolatorio del mercato alimentare interno, occorre rilevare che nel Vecchio Continente il principio di precauzione stabilisce in capo alle competenti Autorità l’obbligo di emanare misure che si ritengano appropriate per la prevenzione dei rischi potenziali per sanità pubblica, sicurezza e ambiente – quali ambiti da salvaguardare in maniera prioritaria rispetto agli interessi economici – e siano slegate dal ricorrere di un nesso causale effettivo tra il fatto che procura il danno o potenzialmente dannoso e i derivanti effetti pregiudizievoli. Allorquando siano incerte l’esistenza o la portata dei rischi per la salute delle persone, i pubblici poteri, al fine di assicurare un elevato livello di protezione, devono esperire una precoce azione preventiva che goda di anticipare il consolidamento delle acquisizioni scientifiche.

Ebbene, il modello comunitario di precauzione, fondato sull’applicazione di un sistema di tutele cautelative in momento anteriore a quello in cui risulti scientificamente suffragata l’ipotesi di rischio per salute e ambiente, non è sovrapponibile a quello che fonda il diritto commerciale globale.

Di fatto, all’assetto normativo europeo di tipo ‘proattivo’, che contempla l’attivazione dell’intervento pubblico anche quando il rischio potenziale non è stato individuato, fa da contraltare quello mondiale che è di tipo ‘reattivo’, in base al quale le autorità politiche intervengono solo quando il rischio è scientificamente dimostrato, quasi a identificare l’approccio precauzionale con quello preventivo (in quest’ultimo caso, infatti, il rischio deve essere oggettivo e provato).

A questo punto, dovrebbe essere a tutti chiaro che le logiche che caratterizzano, in particolar modo in ambito sanitario e fitosanitario, i processi legislativi e decisionali dell’UE e quelli dell’OMC non realizzano un sistema di vasi comunicanti.

Nel CETA, il principio precauzionale è espressamente richiamato in due articoli, dedicati alla protezione rispettivamente dei lavoratori e dell’ambiente.
Infatti, nel primo caso, al Capitolo 23 “Commercio e lavoro”, l’art. 23.3 statuisce che le Parti non possono invocare la «mancanza della piena certezza scientifica» al fine di che «posticipare l’adozione di misure di protezione efficienti in termini di costi» al ricorrere di «pericoli o condizioni, reali o potenziali, che possano ragionevolmente provocare infortuni o malattie a una persona fisica».

Mentre, nell’altro caso, al Capitolo 24 “Commercio e ambiente”, l’art. 24.8 sancisce che le Parti non possono invocare la «mancanza di una certezza scientifica assoluta» al fine di «posticipare l’adozione di misure di protezione efficienti in termini di costi atte a prevenire il degrado ambientale» allorquando ricorra « il rischio di danni gravi o irreversibili».

Ferme stanti le due disposizioni in parola, il principio de quo in materia sanitaria e fitosanitaria opera, nel CETA, a mezzo rinvio, per normazione mediata, all’Accordo “SPS”, che peraltro contiene al riguardo la ‘norma-quadro’ nell’alveo della legislazione OMC.

Si tratta dell’art. 5 par. 7, a tenore del quale «Nei casi in cui le pertinenti prove scientifiche non siano sufficienti un membro può temporaneamente adottare misure sanitarie o fitosanitarie sulle base delle informazioni pertinenti disponibili, comprese quelle provenienti dalle competenti organizzazioni internazionali nonché dalle misure sanitarie o fitosanitarie applicate da altri membri. In tali casi i membri cercano di ottenere le informazioni supplementari necessarie per una valutazione dei rischi più obiettiva e procedono quindi ad una revisione della misura sanitaria o fitosanitaria entro un termine ragionevole».

Dunque, allorquando la necessaria evidenza scientifica sia ritenuta insufficiente, uno Stato membro dell’OMC è nella possibilità di stabilire restrizioni degli scambi, che, tuttavia, sono destinate a restare in vigore solo temporaneamente e allo Stato stesso che le introduce spetta contestualmente di raccogliere ulteriori informazioni per addivenire alla valutazione compiuta del rischio non scientificamente provato.

Siamo senza dubbio di fronte ad un meccanismo di deroga all’art. 2 par. 2 del medesimo Accordo “SPS” (si ricordi che siffatta norma prevede che le misure sanitarie e fitosanitarie devono essere necessarie, scientificamente fondate e non mantenute in assenza di sufficienti prove scientifiche) pienamente ricollegabile all’approccio precauzionale.

E si palesano, così, i punti di discordanza tra le due prospettive in commento, quella ‘ regionale’ comunitaria e quella multilaterale.

Il diritto commerciale internazionale riconosce la primazia dell’evidenza scientifica del rischio che i provvedimenti restrittivi sono chiamati a fronteggiare, nonchè il carattere della provvisorietà di questi ultimi. E, soprattutto, la norma prima richiamata attribuisce facoltà e non obblighi agli Stati membri dell’OMC.

In pratica, nel sistema OMC (cui – giova sempre ricordare – il Canada e la stessa UE vi si devono attenere), un fondato sospetto iniziale o valori sperimentali non legittimano l’applicazione di misure precauzionali.

E se da un lato la regolamentazione globale contempla il principio di precazione, dall’altro la mancanza di una sua definizione univoca, a fronte della pluralità delle formulazioni utilizzate e delle finalità perseguite, non fa che spogliarlo, oggi come ieri, del valore giuridico proprio delle norme di diritto internazionale che obbligano gli Stati.

Sta di fatto che il testo del CETA gode di uniformarsi alla “world trade law”.
Tra l’altro, di particolare rilievo, al riguardo, è quanto afferma lo “Strumento interpretativo comune – SIC” alla lett. d) del punto 1 – dedicato al Preambolo -, a tenore del quale «l’Unione europea e i suoi Stati membri e il Canada riaffermano gli impegni riguardo alla precauzione da essi assunti negli accordi internazionali».

Cionondimeno, non si rilevano elementi che possano lasciare intendere che la Commissione UE abbia direttamente o indirettamente ‘negoziato’ il principio precauzionale che permea il logos politico e giuridico del Vecchio Continente.

Vale la pena osservare che alla medesima lett. d) del punto 1 del SIC, poc’anzi menzionata, viene riportato che «il CETA non indebolirà le norme e le regolamentazioni rispettive concernenti la sicurezza degli alimenti, la sicurezza dei prodotti, la protezione dei consumatori, la salute, l’ambiente o la protezione del lavoro. Le merci importate, i prestatori di servizi e gli investitori devono continuare a rispettare i requisiti nazionali, compresi norme e regolamentazioni».

E si faccia pure riferimento al documento datato 27 ottobre 2016 concernente le dichiarazioni da mettere a verbale all’atto dell’adozione, da parte del Consiglio UE, della decisione che autorizza la firma dell’Accordo con il Canada. Da evidenziarsi che al punto 27 è riportata la Dichiarazione della Commissione sulla protezione del principio della precauzione nel CETA: ebbene, viene asserito che «la Commissione conferma che il CETA mantiene la possibilità per l’Unione europea e gli Stati membri di applicare i loro principi fondamentali che disciplinano le attività di regolamentazione», con la precisazione che nel caso dell’UE si tratta dei principi «fissati nel Trattato sull’Unione europea e nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, in particolare il principio della precauzione» e la conclusione perentoria secondo cui «la Commissione conferma che nulla nell’accordo CETA impedisce l’applicazione del principio della precauzione nell’Unione europea come stabilito dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea».

Altrettanto opportunamente, in relazione all’articolato del CETA, si osservi in particolare che, nel Capitolo 21 dedicato alla “Cooperazione regolamentare” (il cui ambito di applicazione investe anche le misure sanitarie e fitosanitarie di cui al Capitolo 5), l’art. 21.5 – intitolato “Compatibilità delle misure di regolamentazione” – statuisce che «le Parti hanno la facoltà di adottare misure di regolamentazione diverse o di perseguire iniziative differenti per motivi quali diverse impostazioni istituzionali o legislative oppure circostanze, valori o priorità specifici di ciascuna parte». Si tratta a mio avviso di un ulteriore passaggio fondamentale, che assurge a formale testimonianza dell’attitudine del CETA a riconoscere e preservare i differenti impianti normativi di UE e Canada.

Ciò detto, fermo stante il quadro sin qui delineato, devo riscontrare che resta ancora ai più inesplorata e quindi marginalizzata dal dibattito pubblico la circostanza, degna della medesima enfasi con cui si addebita al CETA di svilire pericolosamente l’approccio comunitario, che esiste un punto di convergenza normativa tra il modello precauzionale europeo e quello mondiale, con un adattamento del primo al secondo, ravvisabile proprio in materia di legislazione alimentare.
La norma di riferimento è rappresentata dall’art. 7 – emblematicamente titolato “Principio di precauzione” – del fondamentale Regolamento (CE) n. 178/2002 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2002, che, ad litteram, stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare
Ebbene, il comma 1 prevede che «qualora, in circostanze specifiche a seguito di una valutazione delle informazioni disponibili, venga individuata la possibilità di effetti dannosi per la salute ma permanga una situazione d’incertezza sul piano scientifico, possono essere adottate le misure provvisorie di gestione del rischio necessarie per garantire il livello elevato di tutela della salute che la Comunità persegue, in attesa di ulteriori informazioni scientifiche per una valutazione più esauriente del rischio».
Prima facie, siffatta disposizione indica che il Legislatore europeo ha inteso conferire, anche in ambito alimentare, precipua rilevanza giuridica all’incertezza scientifica, ancorando l’assunzione di scelte precauzionali alla gestione del rischio e non ad una valutazione tecnica del rischio stesso.
Tuttavia, occorre rilevare, oltre alla rimarcata provvisorietà dei provvedimenti in parola, che qui il principio di precauzione digrada a norma che assegna una facoltà allo Stato, piuttosto che risultare norma che produce vincoli.
Non solo. Il successivo comma 2 stabilisce che le misure in parola «sono proporzionate e prevedono le sole restrizioni al commercio che siano necessarie per raggiungere il livello elevato di tutela della salute perseguito dalla Comunità, tenendo conto della realizzabilità tecnica ed economica e di altri aspetti, se pertinenti. Tali misure sono riesaminate entro un periodo di tempo ragionevole a seconda della natura del rischio per la vita o per la salute individuato e del tipo di informazioni scientifiche necessarie per risolvere la situazione di incertezza scientifica e per realizzare una valutazione del rischio più esauriente».
Ecco, dunque, che, alla luce dell’enunciato della ‘norma-quadro’ per la precauzione in materia alimentare, si palesa, in tale specifico contesto giuridico, una visione fievole di uno dei principi generali dell’Ordinamento comunitario: il Legislatore europeo, attenendosi prudenzialmente al diritto OMC, ha introdotto una formulazione assolutamente conforme al dettato dell’art. 5.7 dell’Accordo “SPS”, a tenore del quale giova ricordare che «…un membro può temporaneamente adottare misure sanitarie o fitosanitarie…» e che «in tali casi i membri cercano di ottenere le informazioni supplementari necessarie per una valutazione dei rischi più obiettiva e procedono quindi ad una revisione della misura sanitaria o fitosanitaria entro un termine ragionevole».

Ciò posto, vale la pena ora richiamare, in particolare, la diffusa preoccupazione ingenerata dai detrattori del CETA sul pericolo che il mercato europeo stia così spalancando le porte a OGM e carni con gli ormoni della crescita largamente diffuse in Canada.

Ebbene, vale al riguardo ogni argomento puntualmente da me svolto sin qui.

Ad ogni buon conto, quanto agli OGM, resterà pienamente in vigore la Direttiva 2001/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio datata 12 marzo 2001 sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati, così come modificata dalla Direttiva UE 2015/412 dell’11 marzo 2015.

Quanto alle carni con gli ormoni, resterà pienamente in vigore la Direttiva UE 96/22/CE del Consiglio datata 29 aprile 1996, concernente il divieto d’utilizzazione di talune sostanze ad azione ormonica, tireostatica e delle sostanze.

Vieppiù che, sulla questione della carne con estrogeni, occorre inevitabilmente far riferimento alla lunga e clamorosa controversia anni fa instauratasi tra UE e Nord America (i cui strascichi, peraltro, ancora non si sono esauriti), non sufficientemente richiamata nel dibattito nazionale odierno sul CETA, quantunque si tratti di una vicenda che fornisce uno spaccato importante e fedele del regime mondiale degli scambi.

Con ben quattro Direttive susseguitesi dal 1981 al 1996, la Comunità Europea bloccò l’utilizzo e il commercio – al proprio interno e con i Paesi terzi – degli ormoni impiegati per accelerare la crescita dei bovini. Sicchè, gli USA e il Canada, di fatto nazioni, dove tale pratica è storicamente ammessa, annoverabili tra i maggiori esportatori al mondo, ritenendosi danneggiati dal divieto europeo che accusavano di non avere fondamenti giuridici e di confliggere con le regole del commercio mondiale al cui adempimento tanto Washington e Ottawa quanto Bruxelles si erano obbligate, avviarono prontamente un contenzioso presso l’OMC.

E’ così che, più di vent’anni fa, il Dispute Settlement Body (l’organo di risoluzione del controversie in ambito OMC) ha istituito due Panels (gruppi di esperti indipendenti) in relazione alla contesa de qua.
Nel 1997 il DSB si è pronunciato a sfavore dell’UE, che ha in replica deciso di ricorrere contro il pronunciamento negativo.

Ma l’Appellate Body dell’OMC (secondo grado di giudizio), nel 1988, ha confermato la decisione impugnata (EC – Measures Cocerning Meat and Meat Products, 1998, WT/DS 48/AB/R): la Comunità Europea fu condannata a rimuovere il veto e a corrispondere un’equa compensazione a USA e Canada in relazione al danno economico patito.

Tuttavia, l’Europa si è opposta a pagamento e ritiro del bando.
Di qui, nel 1999 l’OMC ha autorizzato USA e Canada ad applicare tariffe supplementari ai beni importati dai Paesi UE per oltre 125 million US$/anno quali misure – di norma proibite – che avrebbero concorso a recuperare le perdite subite.

In pratica, l’UE è stata condannata per avere adottato provvedimenti contrari alle disposizioni dell’Accordo “SPS”, non basati sull’evidenza scientifica del nesso tra ormoni e malattie, ma innescati dalla sola probabilità di un rischio per la salute umana al cui ricorrere l’Europa ha attivato su scala globale i meccanismi regolatori domestici.

Successivamente, nel 2005 e nel 2008, la Commissione Europea ha prodotto all’OMC nuove argomentazioni scientifiche a supporto della propria posizione, ma nell’uno e nell’altro caso le deduzioni comunitarie non sono state accolte, atteso che l’Europa non aveva dimostrato l’associazione dell’impiego di ormoni ad un rischio quantificabile per la sanità pubblica.

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7. LA PROTEZIONE DELLE INDICAZIONI GEOGRAFICHE. IL RILANCIO DELLO SPIRITO EUROPEO DI INTERESSE AGRICOLO NEL DOHA ROUND DELL’OMC

“Sono lieto che gli Stati membri abbiano preparato questo elenco. Insieme ai nostri alleati, l‘UE si adopererà al massimo per ottenere ai negoziati della WTO una migliore protezione dei prodotti regionali di qualità: dal formaggio Roquefort dell’Europa al tè Darjeeling dell’India, dal caffè Antigua del Guatemala all’olio Argan del Marocco. Non si tratta di protezionismo, ma di equità. È inaccettabile che l’UE non possa vendere il suo genuino prosciutto di Parma italiano in Canada perché il marchio Parma Ham è riservato a un prosciutto prodotto in Canada”.

Sono, queste, le parole pronunciate il 28 agosto 2003 dall’allora Commissario Europeo Franz Fischler nell’ambito dei concomitanti negoziati dell’OMC sulle indicazioni geografiche, che dopo parecchio tempo si riveleranno infruttuosi.

Si osservi anzitutto che si tratta di una dichiarazione ufficiale risalente a quasi quindici anni fa. Ció posto, oltre a rilevare la risalenza nel tempo di siffatta posizione, parrebbe legittimo chiedersi a quale vicenda Bruxelles facesse riferimento nel puntare il dito contro Ottawa.

All’epoca, dall’Italia verso il Canada si era già da qualche anno obbligati ad esportare il Prosciutto di Parma Dop sotto il nome di “The Original Prosciutto/Le Jambon Original”, poichè nel mercato nordamericano circolava regolarmente il prosciutto crudo dell’azienda canadese “Maple Leaf Foods” (la più grande impresa agroalimentare di quel Paese) che aveva rilevato nel 1997 il marchio “Parma” registrato in patria nel 1971 da un’associazione di allevatori aggregatisi a un emigrante italiano che già nel 1958 aveva preso a produrre e vendere un prosciutto che chiamò giustappunto “Parma”.

Non solo, un’altra azienda canadese, la “Mastro Food Ltd”, aveva depositato nel proprio Stato il marchio “San Daniele”, imponendo così che il prodotto friulano fosse ivi venduto con il nome di “Authentic Italian Prosciutto”.

Nonostante le diverse rimostranze politiche italiane su scala internazionale e le azioni legali dei relativi Consorzi di tutela, siffatti marchi canadesi non erano mai stati cancellati nè tantomeno il governo locale aveva assunto provvedimenti per impedire o mitigare le storture commerciali ai danni delle eccellenze italiane.

Di fatto, il Canada non ha mai avuto un sistema giuridico che assicuri un’adeguata tutela degli alimenti con denominazione d’origine (considerate un sottoinsieme di marchi commerciali) e tale circostanza ha reso possibile, come del resto in numerosi altri Stati, il determinarsi al suo interno di più casi di registrazione di marchi in contrasto con quelli italiani e, più in generale, europei, in ordine ai quali è stato bloccato l’utilizzo del nome originale come anche ogni iniziativa a fini promozionali.

Sicchè i negoziati di interesse agricolo nel ‘Doha Round’ dell’OMC, di inizio corrente secolo, hanno rappresentato per l’UE l’occasione per sottoporre alla comunità mondiale un elenco dei propri prodotti regionali di qualità la cui denominazione era stata usurpata in più parti nel mondo e quindi da recuperare. Si trattava di marchi comunitari che risultavano usati, in Paesi terzi, da produttori diversi dai titolari dei diritti nello Stato d’origine. Il criterio che ha orientato la redazione dell’elenco finale delle denominazioni comunitarie, su cui si intendeva invocare una discussione proficua e mirata dell’OMC, si sostanziava nell’individuazione delle indicazioni geografiche protette delle quali, nelle aree in cui venivano usurpate, si sosteneva che fossero termini generici e/o fossero state registrate come marchi dai produttori locali. L’UE nel contempo aveva valutato con particolare attenzione gli Stati dove l’abuso in parola si era rivelato più frequente e che risultavano i più importanti sbocchi commerciali per i prodotti europei selezionati. Tra questi, come prima detto, giustappunto il Canada.

Da dirsi pure che, nei medesimi negoziati, l’UE ha chiesto l’introduzione di un registro multilaterale delle indicazioni geografiche e l’allargamento del regime di tutela previsto per vini e alcolici ad altri prodotti alimentari.

Sta di fatto che le attività diplomatiche multilaterali sono naufragate nel corso degli anni e hanno visto proprio il Canada porsi, insieme con altri Paesi anglofoni (USA, Australia), alla testa del fronte contrario alle proposte dell’UE, accusate, tra l’altro, di violare il principio cd. del “trattamento nazionale”, tra i cardini del sistema commerciale multilaterale, secondo cui i beni provenienti dall’estero e quelli locali non devono essere sottoposti ad un trattamento differenziato.

Proprio in ordine alle indicazioni geografiche, il mondo si rivela polarizzato intorno a due diverse prospettive della tutela. Nel primo caso, quello dell’approccio europeo, la protezione si esplica secondo uno schema ‘sui generis’ basato sui disciplinari di produzione e tutti i produttori che li rispettano possono utilizzare il marchio di qualità comunitario. Nell’altro caso, che si identifica con l’approccio nordamericano, la protezione si esplica secondo lo schema dei marchi privati da registrare.

Più segnatamente, in Canada, a tenore della sezione 10 del “Trade-Marks Act” (la legge statale sui marchi di fabbrica), non è possibile registrare un marchio che si contrapponga a un segno che, a seguito dell’uso in buona fede reiterato in loco nel tempo, è diventato idoneo a individuare un dato tipo di beni, le qualita degli stessi o il loro luogo d’origine. È qui ben rilevabile il principio fondante del regime del marchio nel Nord America, che ben possiamo racchiudere nella formula “first to use, first in right”, in forza del quale diventa proprietario del marchio chi per primo lo ha effettivamente utilizzato. Altresì, secondo la successiva sezione 25, è vietato registrare un marchio di certificazione che possa confondersi con un altro gia depositato, ricomprendendovi pure i segni individuali geografici che hanno acquisito la connotazione della distintività.

È così accaduto che a fine anni ’90 dapprima la Corte federale canadese ha rigettato l’istanza per la registrazione del nome commerciale “Prosciutto di Parma” formulata dal Consorzio italiano di tutela, avverso il quale veniva fatto valere il pregresso deposito dello stesso marchio da parte della “Maple Leaf”. Successivamente, l’Autorità giudiziaria locale ha bocciato il ricorso in appello presentato dal medesimo Consorzio che aveva chiesto che la denominazione fosse attribuita solo ai prodotti provenienti dal territorio italiano di Parma, in ossequio al regime europeo delle Dop e Igp. I giudici, invece, hanno valutato che all’epoca della registrazione canadese, quindi nel 1971, il marchio non era tale da indurre in errore gli acquirenti sulla effettiva origine dei prodotti, precisando inoltre che nel caso di specie occorresse considerare quale mercato di riferimento solo quello canadese e non quello internazionale e che la distintività del prosciutto italiano non fosse ascrivibile ai consumatori medi, bensì alla residuale parte di quelli dotati di conoscenze specifiche del comparto agroalimentare del Bel Paese.

Ebbene, grazie al CETA, a due icone del “made in Italy agroalimentare” rappresentate dal Prosciutto di Parma e San Daniele (cui occorre aggiungere anche il Prosciutto Toscano), le cui vicende sono assolutamente paradigmatiche dello scenario che l’Accordo economico e commerciale globale tra Canada e UE andrà a modificare – si dischiuderà, finalmente dopo decenni, l’agognata possibilità di essere commercializzate in Canada utilizzando i rispettivi nomi recanti le indicazioni geografiche d’origine e apponendo i propri simboli di identificazione sulle relative confezioni. Quel che accadrà in regime di coesistenza con i marchi già presenti nel mercato canadese.

Passando alla disciplina del CETA, si rileva che, nel Capitolo 20 intitolato “Proprietà intellettuale”, la Sottosezione ‘C’ è interamente dedicata alle “Indicazioni geografiche”. Circostanza che assume il valore del traguardo storico, se rapportata alla epocale refrattarietà del Canada ad accordare centralità e valore alle appellazioni territoriali

Nel dettaglio, l’art. 20.16 riporta la definizione di “indicazione geografica” intendendo con essa «l’indicazione che identifica un prodotto agricolo o alimentare come originario del territorio di una parte, o di una regione o località di detto territorio, qualora una determinata qualità, la notorietà o altre caratteristiche del prodotto siano essenzialmente attribuibili alla sua origine geografica»

Tale disposizione non fa che riproporre la definizione richiamata nell’art. 22 dell’Accordo “TRIPs”, che al comma 1 statuisce che «Ai fini del presente Accordo, per indicazioni geografiche si intendono le indicazioni che identificano un prodotto come originario del territorio di un Membro, o di una regione o località di detto

territorio, quando una determinata qualità, la notorietà o altre caratteristiche del prodotto siano essenzialmente attribuibili alla sua origine geografica».

Giova a questo punto precisare che le previsioni dell’intero Capitolo 20 – secondo quanto sancito all’art. 20.2 dedicato a “Natura e portata degli obblighi” – «integrano i diritti e gli obblighi delle Parti a norma dell’accordo TRIPS».
L’Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights, meglio noto con l’acronimo “TRIPs”, è l’Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale ricompreso, come nel caso dell’Accordo “SPS” più volte richiamato nella presente indagine, nel novero dei trattati annessi all’Atto istitutivo dell’OMC e pertanto adottato a Marrakech il 15 aprile 1994 e vincolante per tutti gli Stati contraenti.

Ciò premesso, vale la pena sottolineare che le due definizioni di “indicazione geografica” contenute nel “TRIPs” e nel CETA sono assolutamente sovrapponibili, fatto salvo il riferimento a prodotti in senso generico formulato dall’art. 22 co. 1 del “TRIPs” cui si frappone l’espresso richiamo ai prodotti agricoli o alimentari operato dall’art. 20.16 del CETA.

Non può sfuggire che il Regolamento UE nr. 1151/2012 del 21 novembre 2012, che disciplina i regimi di qualità dei prodotti agricoli e alimentari, all’art. 2, nel delineare il proprio ambito di applicazione, menziona esclusivamente i «prodotti agricoli destinati al consumo umano» e i «prodotti agricoli e alimentari» ivi elencati. Si tratta di un importante punto di compatibilità normativa dell’Accordo UE-Canada con il diritto alimentare comunitario, che – qui come in altre disposizioni – segnala il varco aperto dall’intesa economica de qua nel granitico regime del marchio d’impresa nordamericano e che, ad ogni buon conto, non esclude la possibilità che in futuro sia decisa l’estensione della previsione anche ai prodotti non agricoli e alimentari.

Come pure rileva l’aderenza dell’enunciato del CETA alla definizione di “indicazione geografica” riportata dal citato Regolamento UE nr. 1151/2012, che è opportuno sottolineare tiene pur sempre conto delle esigenze dell’OMC: a tenore dell’art. 5, infatti, essa «identifica un prodotto originario di un determinato luogo, regione o paese, alla cui origine geografica sono essenzialmente attribuibili una data qualità; la reputazione o altre caratteristiche», aggiungendo che almeno una delle fasi produttive si svolge nell’area geografica delimitata.

Ciò posto, l’art. 20.17 del CETA dispone che la Sottosezione ‘C’ del Cap. 20 «si applica alle indicazioni geografiche che identificano i prodotti rientranti in una delle classi di prodotto elencate all’Allegato 20-C», ossia: carni fresche, congelate e trasformate; carni stagionate; luppoli; prodotti ittici freschi, congelati e trasformati; burro; formaggi; prodotti orticoli freschi e trasformati; frutta e frutta a guscio fresche e trasformate; spezie; cereali; prodotti della macinazione; semi oleosi; bevande a base di estratti vegetali; oli e grassi di origine animale; dolciumi e prodotti da forno; paste; olive da tavola e trasformate; pasta di senape; birra; aceti; oli essenziali; gomme e resine naturali-gomme da masticare.

Le appellazioni interessate dall’Accordo sono appositamente riportate in uno degli “Annexes”: si tratta, ai sensi dell’art. 20.18, dell’Allegato 20-A composto da due elenchi, ossia la Parte ‘A’ recante «le indicazioni geografiche che identificano un prodotto come originario del territorio dell’Unione europea o di una regione o località di tale territorio» e della Parte ‘B’ recante le indicazioni geografiche che identificano un prodotto come originario del territorio del Canada o di una regione o località di tale territorio».

Scorrendo l’elenco che compone la Parte ‘A’, si contano 172 denominazioni DOP e IGP europee rientrate nel CETA, riferite a 14 Paesi Membri.

Non si tratta peraltro di un ‘numerus clausus’: a tenore dell’art. 20.22, il “Comitato misto CETA” (introdotto dall’art. 26.1, comprende rappresentanti dell’UE e del Canada ed è responsabile di tutte le questioni riguardanti il commercio e gli investimenti tra le Parti e dell’attuazione e applicazione dell’Accordo), deliberando per consenso (decisione dietro accordo generalizzato) su raccomandazione del “Comitato CETA per le indicazioni geografiche”, può disporre modifiche dell’Allegato 20-A aggiungendo nuove indicazioni geografiche o rimuovendo quelle che hanno cessato di essere protette o sono cadute in disuso nel loro luogo di origine.

Altresì, vini e bevande alcoliche non sono interessati dal CETA, atteso che si tratta di prodotti oggetto di pregresso, separato Accordo in vigore dal 2004, vale a dire l’Agreement between the European Community and Canada on trade in wines and spirits drinks.

Per l’Italia sono presenti 41 denominazioni DOP e IGP (corrispondenti a 36 prodotti agroalimentari), così come segue:

  • –  Aceto balsamico Tradizionale di Modena
  • –  Aceto balsamico di Modena
  • –  Cotechino Modena
  • –  Zampone Modena
  • –  Bresaola della Valtellina
  • –  Mortadella Bologna
  • –  Prosciutto di Parma
  • –  Prosciutto di S. Daniele
  • –  Prosciutto Toscano
  • –  Prosciutto di Modena
  • –  Provolone Valpadana
  • –  Taleggio
  • –  Asiago
  • –  Fontina
  • –  Gorgonzola
  • –  Grana Padano
  • –  Mozzarella di Bufala Campana
  • –  Parmigiano Reggiano
  • –  Pecorino Romano
  • –  Pecorino Sardo
  • –  Pecorino Toscano
  • –  Arancia Rossa di Sicilia
  • –  Cappero di Pantelleria
  • –  Kiwi Latina
  • –  Lenticchia di Castelluccio di Norcia
  • –  Mela Alto Adige
  • –  Sudtiroler Apfel
  • –  Pesca e nettarina di Romagna
  • –  Pomodoro di Pachino
  • –  Radicchio Rosso di Treviso
  • –  Ricciarelli di Siena
  • –  Riso Nano Vialone Veronese
  • –  Speck Alto Adige
  • –  Sudtiroler Markenspeck
  • –  Sudtiroler Speck
  • –  Veneto Valpolicella
  • –  Veneto Euganei e Berici
  • –  Veneto del Grappa
  • –  Culatello di Zibello
  • –  Garda
  • –  Lardo di ColonnataAl riguardo, è particolare notare che il numero di appellazioni di origine che il CETA riconosce all’Italia ai fini della protezione nei confronti di un solo Paese terzo è pari al totale delle indicazioni geografiche europee che la Commissione ha proposto all’intera comunità mondiale per la relativa tutela, nel corso dei negoziati del ‘Doha Round’.In quell’occasione, infatti, l’UE si è fatta strenua promotrice del recupero nella legislazione commerciale globale di alcune denominazioni comunitarie risultate usurpate in più aree del mondo, elaborando una lista di 41 prodotti su cui concentrare il dibattito in seno all’OMC, dei quali 22 appartenenti alla categoria ‘vini e alcolici” (Beaujolais, Bordeaux, Bourgogne, Chablis, Champagne, Chianti, Cognac, Grappa di Barolo, Graves, Liebfrau(en)milch, Malaga, Marsala, Madeira, Médoc, Moselle, Ouzo, Porto, Rhin, Rioja, Saint-Emilion, Sauternes, Jerez Xerez) unitamente ad altri 19 alimenti in gran parte rappresentati da latticini e salumi (Asiago, Azafrán de la Mancha, Comté, Feta, Fontina, Gorgonzola, Grana Padano, Jijona y Turrón de Alicante, Manchego, Mortadella Bologna, Mozzarella di Bufala Campana, Parmigiano Reggiano, Pecorino Romano, Prosciutto di Parma, Prosciutto di San Daniele, Prosciutto Toscano, Queijo São Jorge, Reblochon e Roquefort).

All’opposto, nell’elenco che compone la Parte ‘B’ non viene riportata alcuna denominazione nordamericana: in pratica, il Canada ha “accreditato” un numero significativo di indicazioni geografiche del Vecchio Continente e, nel contempo, non ha invocato tutele per nessuna delle sue denominazioni. Un esito, questo, dei negoziati per il CETA, che di certo strizza l’occhio all’UE ma che non può sorprendere neppure prima facie, attesa l’impari premura che le Parti nutrono verso l’ambito de quo e la loro differente prospettiva giuridica in fatto di proprietà intellettuale.

Vieppiù che il CETA ripropone il medesimo, particolare meccanismo negoziale delle “liste brevi”, che l’UE ha approntato a partire proprio dai negoziati mondiali di interesse agricolo, allorquando ha assunto la decisione di instaurare, parallelamente alla partecipazione alle trattative multilaterali, intese bilaterali e/o regionali finalizzate anche a realizzare standard di difesa dei diritti di protezione intellettuale, con particolare riguardo rivolto alle indicazioni geografiche, superiori a quelli riconosciuti dall’Accordo “TRIPs”, così che i nuovi accordi istitutivi di aree di libero scambio con i partner commerciali sono andati ricomprendendo un insieme di norme dunque chiamate “TRIPs plus”. Sicchè la Commissione ha inteso or sono dotarsi, strumentalmente alla formazione dei nuovi trattati commerciali, di un precipuo criterio regolatore basato sulla preliminare redazione di un prospetto contenente talune denominazioni d’origine all’uopo selezionate, da rimettere poi al Paese terzo contraente, chiamato a riconoscerle ai fini della loro protezione direttamente all’interno del proprio territorio. La lista delle appellazioni, concisa e mirata, negoziata direttamente dalla Commissione e dallo Stato controparte senza necessità di istanze individuali degli operatori per la tutela della denominazione di interesse, ma che non dissimuli una sorta di travaso anti-negoziale nell’Ordinamento della controparte del cospicuo elenco di marchi di qualità depositati presso la Commissione medesima, va rivista di volta in volta, a seconda del contesto domestico del Paese partner, in base all’approfondimento delle indicazioni geografiche più abusate nel mercato interno di quest’ultimo e al concomitante livello di tutela pubblica ivi assicurato a ciascuna, alla valutazione del sistema economico sotteso alle appellazioni considerate e alla stima delle prospettive di espansione commerciale delle stesse nel territorio del contraente.
Si pensi, a titolo esemplificativo, al Prosecco Doc, una delle più importanti denominazioni d’origine italiana per reputazione, valore economico e volumi degli scambi. E’ inconfutabile che non sia presente nel gruppo di indicazioni protette dal CETA, ma è altrettanto irrevocabile in dubbio che si tratti di un marchio che, a differenza di tanti altri, ha già ottenuto il riconoscimento di indicazione geografica in Canada, in forza dell’iter amministrativo avviato autonomamente in loco dal Consorzio italiano di tutela.

Altro, significativo elemento che tipizza l’azione di tutela c.d. “TRIPs plus” perseguita dall’UE – e rinvenibile in tutti gli accordi commerciali di nuova generazione – è l’allargamento della protezione attribuita dal diritto OMC unicamente a vini e bevande alcoliche agli altri alimenti e prodotti agricoli.
Quel che è dato rilevare nel CETA giustappunto in relazione alle indicazioni geografiche.
Si osservi, al riguardo, che l’art. 23 del “TRIPs” dispone che «ciascun Membro prevede i mezzi legali atti a consentire alle parti interessate di impedire l’uso di un’indicazione geografica che identifichi dei vini per vini non originari del luogo indicato dall’indicazione geografica in questione, o di un’indicazione geografica che identifichi degli alcolici per alcolici non originari del luogo indicato dall’indicazione geografica in questione, anche se la vera origine dei prodotti è indicata o se l’indicazione geografica è tradotta o è accompagnata da espressioni quali “genere”, “tipo”, “stile”, “imitazione” o simili» (co. 1): l’enunciato è oltremodo rappresentativo del regime di tutele rafforzate accordate dal diritto commerciale mondiale con riferimento univoco ai vini.
Ciò posto, si noti pure che l’art. 20.19 del CETA statuisce che la protezione delle indicazioni geografiche riportate nell’Accordo de quo «è fornita anche qualora la vera origine del prodotto sia specificata o l’indicazione geografica sia indicata in forma tradotta o accompagnata da espressioni quali “genere”, “tipo”, “stile”, “imitazione” o da altre espressioni simili» (par. 3). La disposizione è assolutamente speculare a quella del “TRIPs”, ma di fatto reca la previsione di un ‘quid plus’ estendendo l’ambito di applicazione ai marchi territoriali di qualità.
E mi preme rimarcare che la portata di siffatta norma è ancor più rilevante se si considera che il Canada non è ricompreso tra i 28 Paesi (vi figura l’Italia) che hanno aderito all’Accordo di Lisbona del 1958 per la protezione delle denominazioni di origine, che ha introdotto un sistema di registrazione transfrontaliero -valido all’interno delle unioni speciali istituite tra i contraenti – delle appellazioni di origine di prodotti le cui qualità o caratteri sono legati «all’ambiente geografico comprendente i fattori naturali e i fattori umani» (art. 2) e che vengono protette «contro qualsiasi usurpazione o imitazione, ancorché l’origine vera del prodotto sia indicata o la denominazione sia tradotta e accompagnata da espressioni come ‘genere’, ‘tipo’, ‘modo’, ‘imitazione’ o simili» (art. 3).

Il medesimo art. 20.19 del CETA impone alle Parti di predisporre i mezzi giuridici idonei a impedire l’uso di un’indicazione geografica della controparte per un prodotto che non sia originario del luogo di origine specificato nell’Allegato 20-A o che, sebbene originario, non è stato prodotto o fabbricato conformemente alla legislazione dell’altra Parte (lett. a) par. 2) e a non consentire l’utilizzo di qualsiasi elemento che indichi o suggerisca che il prodotto proviene da un’area geografica diversa dal vero luogo d’origine inducendo in errore l’acquirente sull’origine geografica del prodotto stesso (lett. b) par. 2). Altresì, le Parti, nei limiti del proprio assetto normativo, prevedono misure amministrative che non permettano di fabbricare, preparare, imballare, etichettare, vendere, importare o pubblicizzare alimenti in maniera falsa, fuorviante o ingannevole o che ingenera un errata impressione sulla loro origine (par. 4). Come pure misure amministrative in materia di denunce sull’etichettatura dei prodotti, compresa la loro presentazione (par. 5).

Ciò posto, nel CETA è comunque previsto un regime di deroghe.
Sono 5 le indicazioni geografiche europee (Canards à foiegras du Sud-Ouest (Périgord), Szegedi téliszalámi/Szegedi szalámi, Prosciutto di Parma, Prosciutto San Daniele e Prosciutto Toscano) coesisteranno con i marchi canadesi preesistenti – che resteranno in vigore – con cui risultano contrastanti, ma godranno dell’autorizzazione a usare la propria denominazione in Canada. Si osservi peraltro che l’art. 20.20, a disciplina dei casi di ‘omonimia’, chiede espressamente di tenere conto dell’esigenza di garantire un equo trattamento dei produttori interessati.
Mentre, altre 8 indicazioni (Black Forest Ham/ambon Forêt noire, Tiroler Bacon, Parmesan, Bavarian Beer/Bière Bavaroise, Munich Beer/Bière Munich, Valencia orange, Comté /County correlati al nome delle province canadesi, St George) che nel gergo canadese sono nomi comuni di prodotti potranno essere usate in associazione al prodotto e si potrà utilizzare o depositare in Canada un marchio composto da una delle appellazioni in parola, a condizione che il loro impiego non indichi o infonda l’idea ingannevole che il prodotto proviene da un’area geografica che non coincide con l’effettivo luogo d’origine. E’ così che il Parmigiano Reggiano accederà alle tutele del CETA quale indicazione geografica, ma nel contempo il marchio “Parmesan” continuerà ad essere utilizzato, sempre che non suggerisca in maniera illusoria l’origine italiana. Per altre 3 indicazioni (Nürnberger Bratwürste, Jambon de Bayonne e Beaufort) i produttori che, nei cinque anni anteriori al 18 ottobre 2013 (data del raggiungimento dell’intesa economica), avevano collocato sul mercato marchi col medesimo nome potranno mantenerli; invece, nel caso di uso inferiore ai cinque anni a partire dal 18 ottobre 2013, ricorrerà un periodo di transizione entro il quale occorrerà eliminare gradualmente la propria produzione.
Quanto poi alle 5 indicazioni relative a noti formaggi (Asiago, Fontina, Gorgonzola, Feta e Münster), da un lato tali prodotti accedono alle tutele del CETA, dall’altro gli operatori canadesi che ne facevano già uso commerciale prima del 18 Ottobre 2013 potranno continuare a impiegarli, mentre nel caso di coloro che hanno cominciato a utilizzarlo dopo siffatta data, occorrerà unire l’appellazione ai termini “kind”, “type”, “style”, “imitation” o simili (art. 20.21, par. 1-2).

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8. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Il CETA è a mio avviso un importante strumento di giuridificazione della globalizzazione. E’ assolutamente conforme al diritto commerciale mondiale e aderisce alla vocazione all’integrazione globale che è storicamente propria dell’Unione Europea.
Ma in riferimento al CETA, nelle ultime settimane, è tornata ai miei occhi l’immagine di un’Italia dove la piazza urla e il diritto tace.
E amaro è per me constatare, ancor prima dell’alea giuridica della polemica sollevata da qualificati attori della vita pubblica del Paese, che i localismi e i populismi che impregnano il tessuto socio-produttivo nazionale stanno alimentando una involuzione culturale che è la preoccupante avvisaglia di un futuro ridimensionamento italiano nello scacchiere mondiale.