LAVORO NERO E CAPORALATO, EURISPES: L’ECONOMIA DELLE 5 P:

Il lavoro nero è un fenomeno trasversale e radicato nel mercato del lavoro italiano e anche una delle ragioni del persistere di forme di arretramento civile ed economico del Paese. Esso riguarda l’Italia nella sua interezza, anche se nel Meridione si conta oltre il 40% del totale dei lavoratori impiegati senza contratto, del Pil sommerso e delle imposte evase. AGRICOLAE pubblica in esclusiva ricerche e studi Eurispes condotti per fotografare il fenomeno del nero in agricoltura.

Uno dei settori economici più esposti a questo fenomeno è l’agricoltura, dove il lavoro nero spesso si combina con forme diverse di intermediazione illecita (caporalato), espressione di un sistema di reclutamento e impiego della manodopera, straniera ed italiana, a volte di natura transnazionale e legato alla tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo, che determina o tende a determinare, l’umiliazione della dignità del lavoratore, la violazione del relativo contratto di lavoro e delle regole proprie del mercato. Questa fattispecie criminale complessa va affrontata con una prospettiva che consideri le diverse cause e conseguenze cui è connesso, fondate in primis sull’evoluzione del mercato del lavoro, passato da una forte connotazione pubblicistica a una tendenza alla precarietà, flessibilità e atipicità, che ha avvicinato il lavoro regolare a quello irregolare, e con esso ha teso a comprendere le varie e illecite forme di caporalato nel suo modello sociale di riferimento. L’agricoltura nello specifico, insieme ad eccellenze che qualificano la produzione agricola nazionale a livello mondiale, può nascondere forme di sfruttamento così radicali da determinare anche, come alcuni processi in corso dimostrano, la riduzione in schiavitù del lavoratore.

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Resta però fondamentale – secondo l’Eurispes – comprendere per quale ragione gli immigrati entrano in Italia e spesso accettano di lavorare in agricoltura anche senza un regolare contratto di lavoro. Secondo il sociologo Maurizio Ambrosini, due concetti consentono più di altri di inquadrare l’inserimento degli immigrati nella società, nel mercato del lavoro italiano e in quello agricolo. Il primo è quello di “importazione riluttante” di manodopera straniera basata su un atteggiamento di accentuata restrizione formale controbilanciata da forme di tolleranza dei flussi migratori, spesso anche irregolari, impiegati in attività faticose, e da un riconoscimento a posteriori dell’ingresso e dell’inserimento dei migranti nel mercato del lavoro. In questo modo, l’importazione di lavoratori stranieri ha privilegiato la copertura dei fabbisogni di lavoro a bassa qualificazione e consentito processi di ristrutturazione del sistema agro-industriale nazionale. L’altro concetto è quello di “modello mediterraneo” (o Sud-europeo) del funzionamento della società, dell’economia e della gestione dell’immigrazione, di cui l’Italia rappresenta probabilmente il caso più rilevante. Esso comprende processi contemporanei di emigrazione e di migrazioni interne (29° Rapporto Italia, 2017) e si inserisce in contesti socio-economici contraddittori, in cui realtà strutturalmente forti coesistono con altre invece deboli e in perenne crisi occupazionale, oltre che condizionati dalla forza intimidatrice delle mafie.

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Questa condizione deriva – scrive l’Eurispes – dalla porosità delle frontiere, dalla vicinanza delle coste nord-africane e medio orientali, dai fabbisogni del sistema economico, soprattutto agricolo, e sociale nazionale e dalle politiche di chiusura, regolamentazione delle frontiere e degli ingressi dei paesi del Nord Europa che hanno generato una sorta di effetto “rimbalzo” dei flussi migratori tradizionali in entrata negli stessi facendo prendere loro nuove direzioni e, tra queste, quelle verso l’Europa del Sud. Si devono aggiungere altri fattori, come il diffondersi di nuovi conflitti in Africa e Asia, la destabilizzazione di intere aree come, tra le altre, la fascia del Sahel, medio-orientale o del Bangladesh, i mutamenti climatici, gli effetti contraddittori delle cosiddette Primavere Arabe. All’interno di questo modello si deve ricordare che il mercato del lavoro italiano, soprattutto con riferimento ad alcuni settori, risulta sostanzialmente bicefalo, ossia espressione di un’originale combinazione di regole formali e informali, in quest’ultimo caso legate a prassi diffuse che spesso hanno incentivato il lavoro nero, lo sfruttamento e sistemi criminali e mafiosi organizzati allo scopo di ottenere profitto e potere attraverso l’uso strategico della violenza, del ricatto e dell’intimidazione.

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In questo contesto generale, prosegue l’istituto di ricerca, l’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro italiano ha riguardato innanzitutto settori che richiedevano una notevole quantità di manodopera non specializzata in grado di svolgere attività riconducibili alle cosiddette 5P, ossia attività precarie, poco pagate, pesanti, pericolose e penalizzate socialmente. È un fenomeno prevalentemente generato “dal basso”, nel mercato del lavoro e nei contesti sociali locali e solo in seguito riconosciuto dalle Istituzioni pubbliche e regolamentato giuridicamente. Questa discrepanza tra la sfera del mercato e quella della politica migratoria si è riprodotta nel corso del tempo con allarmante costanza. Non a caso tra gli immigrati in Italia, il passaggio dalla condizione di irregolare è considerato un’esperienza quasi normale, talvolta lunga, sicuramente difficile, ma attraversabile.