Specie aliene, invasive o dannose. Il nuovo numero di CREAfuturo: Acquacoltura: alieni anche come opportunità
L’ultimo numero di CREAFuturo è dedicato agli Alieni che, declinati in agricoltura comprendono tutti i micro e macro organismi (insetti, nematodi, acari, virus, funghi e batteri) estranei al nostro ambiente, al nostro mondo agricolo (proprio come alieni extraterrestri), contrari e avversi al nostro paesaggio, alle nostre piante e ai nostri raccolti. E, proprio come se partissimo per un altro pianeta, c’è bisogno di un glossario di base che introduca e spieghi i fondamentali, dall’invasione alla lotta biologica, dagli aspetti normativi comunitari al concetto di pericolosità.
Un problema che supera le frontiere, acuito dalla globalizzazione e dagli effetti del cambiamento climatico, che, secondo la FAO, compromette fino al 40% del cibo che produciamo, con costi sociali ed economici (oltre che ambientali) salatissimi, anche per il nostro Paese. La ricerca è impegnata in una folle corsa contro il tempo, per prevenire ingressi indesiderati e trovare la soluzione più efficace per ogni alieno che sbarca, mai la stessa. In prima linea, naturalmente, il Centro Difesa e Certificazione del CREA (CREA-DC), che è l’Istituto nazionale di riferimento per la protezione delle Piante.
Anche gli ecosistemi acquatici corrono forti rischi di penetrazione e diffusione di specie aliene che ne alterano gli equilibri, come nei casi del gambero rosso della Louisiana e del granchio blu. Il CREA, con il suo centro di Zootecnia e Acquacoltura, ha trasformato le minacce in risorse, in un’ottica di sostenibilità ambientale e di economia circolare, per rendere l’acquacoltura, un settore con un’impronta carbonica fra le più basse nel panorama delle produzioni animali, sempre più protagonista della transizione ecologica.
Le specie aliene acquatiche: un problema non nuovo
Gli ecosistemi acquatici contribuiscono in modo determinante alla biodiversità del pianeta Terra, custodendo oltre l’80% delle specie conosciute. Tuttavia, essi sono anche i più sensibili agli effetti delle attività antropiche e il declino della biodiversità in questi ambienti è molto più rapido che altrove. La diffusione di specie aliene invasive è considerata la seconda principale minaccia per la biodiversità a livello mondiale, dopo la distruzione degli habitat naturali. È proprio l’uomo che, volontariamente o meno, favorisce la diffusione delle specie aliene, consentendo loro di superare le barriere naturali, che ne delimitano la distribuzione geografica. Alcune di queste specie, dette invasive, dopo l’introduzione nelle nuove aree, si affermano e si espandono, causando impatti negativi sulla biodiversità a tutte le scale, da quella genetica, di ricchezza in specie, fino a quella di ecosistema.
Queste “invasioni biologiche” hanno costi altissimi non solo dal punto di vista ecologico, ma anche da un punto di vista economico. Secondo un recente studio pubblicato su Nature avrebbero prodotto danni per oltre di 1,2 trilioni di dollari. Anche per questo motivo, l’Unione Europea ha l’obiettivo di ridurre di almeno il 50% l’introduzione di queste specie potenzialmente invasive entro il 2030, chiedendo agli Stati Membri di dare piena attuazione alle misure previste dalle normative in vigore, per ridurre e mitigare le conseguenze negative che le specie aliene invasive hanno sulla biodiversità e sui servizi ecosistemici.
Come? Identificando e gestendo tempestivamente i percorsi di introduzione volontaria delle specie aliene, prevenendo le invasioni e dando priorità al monitoraggio di quelle già presenti.
L’acquacoltura
L’acquacoltura è uno di quei settori produttivi maggiormente soggette all’introduzione di specie aliene: alcune di queste introduzioni sono avvenute per caso, attraverso il trasporto involontario di stadi larvali di organismi, poi divenuti oggetto di allevamento, grazie alle loro ottime performance produttive, come la vongola verace filippina. Per ridurre al minimo i rischi di tali introduzioni sulla biodiversità acquatica il Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste (MASAF), grazie anche al supporto e alla consulenza scientifica del “Comitato acquacoltura specie esotiche”, coordinato da ISPRA e costituito da esperti in vari settori dell’acquacoltura, di cui fa anche parte il CREA, effettua una valutazione del rischio di introduzione di una specie prima di concedere alle aziende l’autorizzazione a produrla (attuazione dei Regolamenti (CE) 708/2007, 506/2008, 535/2008 e (UE) 304/2011). Di recente la normativa nazionale è stata aggiornata con la pubblicazione del DPR del 5 luglio 2019 n. 102 e del DM 2 aprile 2020.
In passato le introduzioni in acquacoltura non erano regolamentate: purtroppo il caso del gambero rosso della Louisiana (Procambarus clarkii) è un esempio perfetto. Si tratta di un piccolo crostaceo d’acqua dolce, originario del Nord America, introdotto agli inizi degli anni ‘90 per fini produttivi in Italia da un piccolo allevamento in provincia di Lucca, vicino al Lago di Massaciuccoli. Non essendo il sito di allevamento provvisto di sistemi efficaci di contenimento delle fughe, alcuni gamberi fuggirono accidentalmente, insediandosi ed espandendosi praticamente in tutti i fiumi e gli specchi d’acqua d’Italia.
Il gambero rosso della Louisiana come possibile ingrediente in acquacoltura: i progetti del CREA
Per le specie aliene dalla grande flessibilità ecologica e altissima capacità di diffusione e adattamento, l’eradicazione totale è impensabile. Numerosi progetti negli anni hanno puntato al contenimento del gambero rosso della Louisiana, cercando di limitarne la diffusione in zone ancora non colonizzate. In questo contesto è nato un importante filone di ricerca del Centro Zootecnia e Acquacoltura del CREA di Monterotondo (RM): utilizzare i gamberi catturati nelle campagne di contenimento di enti regionali, riserve e parchi naturali come ingrediente sostenibile nella dieta dei pesci allevati, come trote e orate, trasformando un problema ambientale in una possibile risorsa.
Nel progetto SUSHIN, finanziato dalla Fondazione AGER, la fattibilità dell’utilizzo di questa specie come ingrediente innovativo per l’acquacoltura è stata valutata attraverso rigorose analisi nutrizionali e sanitarie, per verificarne l’idoneità di utilizzo in una filiera agroalimentare.
La farina ricavata dal gambero rosso della Louisiana, oltre ad essere caratterizzata da un’elevata percentuale proteica (>40%), ha un’alta concentrazione di acidi grassi PUFA omega-3 (1,7 g/100g), caratteristica che le conferisce un rapporto omega-3/omega-6 fra i più alti nel panorama delle farine zootecniche di origine animale, molto simile a quello della farina di pesce proveniente dagli stock naturali dei piccoli pelagici (come acciughe e sardine). Inoltre, la farina di gambero ha una caratteristica unica: la presenza di alte concentrazioni di carotenoidi, in particolare di astaxantina, che non solo è uno degli antiossidanti naturali più potenti, ma anche un pigmento fra i più utilizzati in acquacoltura per la colorazione della livrea di alcuni pesci e delle loro carni (ad esempio nei filetti di trota salmonata) .
Partendo da questi promettenti risultati, con il progetto PERILBIO, finanziato dall’Ufficio Agricoltura Biologica e Sistemi di qualità alimentare nazionale e affari generali del MASAF, i ricercatori CREA hanno testato gli effetti dell’inclusione della farina di gambero rosso della Louisiana sulla shelf-life (vita commerciale del prodotto) di filetti di orata allevata con metodo biologico. La farina ottenuta da gamberi catturati durante campagne di contenimento è conforme alla normativa europea (Reg. CE 848/18), poiché è a tutti gli effetti un ingrediente proveniente da pesca sostenibile, e il suo utilizzo in formulazioni mangimistiche specifiche per il settore dell’acquacoltura biologica si è rivelato di estremo interesse.
I risultati delle prove effettuate presso le gabbie galleggianti del Fish Innovation Living LAB (FINLAB), il dispositivo sperimentale del CREA sito nelle acque dell’Isola di Capraia (Livorno), hanno confermato che questa specie offre opportunità uniche. I filetti di orata allevata con un mangime contenente farina di gambero (al 10%) hanno non solo un più elevato contenuto in PUFA, ma anche una maggiore resistenza alla degradazione, sia lipidica che proteica, rispetto ad un mangime commerciale biologico, in diversi momenti di conservazione (fresco, congelato) e anche a seguito di cottura. Queste importanti caratteristiche sono conferite proprio dall’astaxantina contenuta nel gambero, che si configura, quindi, come potente antiossidante, oltre che come fonte naturale di pigmenti per i mangimi certificati biologici.