Nei consessi internazionali da sempre più tempo si pone il tema dell’aumento della popolazione globale al fianco di una produzione agricola che potrebbe non supportare quella stessa crescita demografica. Eppure a vedere i dati si tratta di un falso problema nel caso dell’Europa e dei paesi cosiddetti sviluppati. La criticità riguarda invece i continenti e le nazioni in via di sviluppo e la cui crescita demografica accentua quei problemi, di per se atavici, di insicurezza alimentare. La soluzione viene però dall’Africa e da qui anche il rilancio di un progetto Africa a guida Italia, come testimoniato dalle parole del Governo (Meloni, Lollobrigida, Tajani, Pichetto Fratin) col Piano Mattei, in un momento in cui le varie crisi umanitarie, alimentari ed energetiche convergono. L’area Africana e del Mediterraneo, poste in una nuova centralità, potrebbero allora dare un nuovo corso alla storia, seppure non a quella con la S maiuscola.
Investire in Africa, facendolo meglio e prima della Cina, diventa quindi fondamentale.
Entro la fine del secolo più di 8 persone su 10 nel mondo vivranno in Asia o in Africa (quest’ultima attualmente ha una popolazione di 1,3 miliardi di persone e per il 2100 dovrebbe crescere arrivando a 4,3 miliardi). A crescere leggermente saranno anche l’America e l’Oceania, spiega Max Roser in un articolo pubblicato su Our World in Data, l’ente di ricerca da lui fondato e diretto.
L’Europa è l’unica regione dove la popolazione calerà passando dagli attuali 750 milioni di abitanti a 630 milioni nel 2100. Meno del 6% della popolazione mondiale vivrà quindi nel continente europeo.
Da tali previsioni demografiche, che nel corso dei decenni passati sono risultate sempre affidabili, si pongono con forza tutti quegli interrogativi che percorrono l’Europa. A fronte di una popolazione globale che aumenta in Africa e in Asia ci si aspetta un incremento anche dei flussi migratori verso i paesi occidentali, una maggiore richiesta di cibo e di fonte energetiche per far fronte alla globalizzazione e industrializzazione.
Gli stessi dati sono d’altronde confermati dalle Nazioni Unite.
Per i paesi ad alto reddito tra il 2000 e il 2020, il contributo della migrazione internazionale alla crescita della popolazione (flusso netto di 80,5 milioni) ha superato il saldo delle nascite sui decessi (66,2 milioni).
Nei decenni successivi, la migrazione sarà l’unico motore della crescita della popolazione nei paesi ad alto reddito. Al contrario, per il prevedibile futuro, l’aumento della popolazione nei paesi a reddito basso e medio-basso continuerà a essere trainato da un eccesso di nascite sulle morti.
Africa e agroalimentare
Ma se l’Africa è parte del problema può diventare anche la soluzione ai problemi, non solo propri ma della stessa Europa.
Investire in Africa, accompagnandoli verso uno sviluppo sostenibile dal punto di vista agroalimentare, industriale ed energetico significherebbe frenare la cosiddetta emigrazione economica e garantire più alti livelli sanitari e socio economici nel continente.
Soffermandosi sul settore agroalimentare, nodo centrale ancor più di quello industriale ed energetico per avere un quadro della situazione in Africa e dei suoi possibili sviluppi, emerge come il continente abbia il 60/65% delle terre arabili ancora non coltivate. Un potenziale enorme che garantirebbe non solo maggiore sicurezza alimentare a livello globale, ma lo sviluppo di una economia locale.
“Secondo stime correnti in Africa si trova il 65% delle terre arabili finora non coltivate e che serviranno quando nel 2050 la popolazione mondiale raggiungerà i 9 miliardi di individui. L’Africa ospita la più grande frontiera agricola che fronteggia il deserto ovvero 400 milioni di ettari di terra di cui soltanto il 10% è coltivata. Oltre alla disponibilità di terre il comparto della trasformazione è ancora poco sviluppato” dichiarava nel 2018 Akinwumi Adesina, presidente della Banca africana di Sviluppo.
Dello stesso parere anche Josefa Sacko, commissario dell’Unione Africana per l’economia rurale e l’agricoltura, come riporta Euractiv:
“Attualmente l’Africa spende 45 miliardi di dollari (41,4 miliardi di euro) ogni anno per le importazioni di prodotti alimentari – denaro che potrebbe essere speso invece per sviluppare il settore agricolo nazionale.
Con il 60% delle terre coltivabili finora incolte, c’è un grande potenziale per incrementare la produzione agricola. Abbiamo l’ecosistema per nutrire l’Africa e per nutrire il mondo”.
Come sottolinea Akinwumi Adesina l’Africa produce il 75% del cacao consumato nel mondo (con Costa d’Avorio e Ghana che da sole ne producono il 65%) ma secondo i dati AfDB riceve soltanto il 2% dei 100 miliardi di dollari generati ogni anno dall’industria.
Se l’Africa può essere la Grande Madre che sfama il mondo è necessario però supportare quella crescita con tecnologie e know how in grado di garantire valore aggiunto alla filiera e sviluppare un settore agroindustriale che ad oggi è quasi inesistente.
Al netto delle Ong, delle organizzazioni no profit e delle buone intenzioni mostrate a parole nei convegni internazionali è lecito dire che una cosiddetta campagna europea per l’Africa, pur non muovendosi da logiche predatorie non può ignorare le opportunità economiche che soggiaciono allo sviluppo del continente. Aiutare l’Africa nel suo processo di ammodernamento e sviluppo rappresenterebbe -non una missione umanitaria- ma una opportunità di crescita per la stessa Europa, come -ben prima di noi e con altra forza- ha capito la Cina.
Il cibo sintetico non è la soluzione
Sullo sfondo vi è poi il tema cibo sintetico, che a detta delle multinazionali e dei guru del food high tech dovrebbe rappresentare la soluzione alla fame nel mondo, senza bisogno di dover inquinare. Eppure -senza toccare il tema sostenibilità e sicurezza in merito al cibo sintetico- ci si trova ad affrontare ancora la questione degli alti costi di produzione che la rendono un prodotto di moda per una fascia medio alta di consumatori in Europa, lontano per altro dall’essere una reale necessità sul mercato. Diventa perciò difficilmente immaginabile vedere tali prodotti sbarcare sui mercati dei paesi in via di sviluppo. Inoltre, qualora dovesse accadere, rappresenterebbe un ulteriore problema per l’economia africana che si vedrebbe fagocitata nel settore agricolo dalle multinazionali, già oggi sofferente come sottolineano i dati Nomisma, giacchè deriva un’economia che, pur rappresentando il 24% della superficie agricola utilizzabile a livello mondiale, in termini di valore non va oltre il 6%. Basti poi pensare i danni per quanto riguarda il comparto zootecnico, difatti sul fronte dell’allevamento l’Africa contribuisce al 20% della produzione mondiale di carne ovina e bufalina.
Si capisce però l’interesse delle multinazionali della carne sintetica se si vedranno confermati i numeri Nomisma secondo cui la domanda di prodotti zootecnici in Africa raggiungerà quota +145% (in volume) per quanto riguarda nello specifico il mercato della carne entro il 2050.
Insicurezza alimentare
Altrettanto importante diviene allora il tema dello spreco alimentare e di diete sostenibili e salutari (il sovrappeso e l’obesità sono ora drammaticamente in aumento nei paesi a basso e medio reddito, evidenzia l’Oms).
Ogni anno dal 33 al 40% del cibo mondiale viene perso o sprecato. Si stima che durante o subito dopo il raccolto venga perso cibo per un valore di 600 miliardi di dollari, secondo i dati di un rapporto redatto da McKinsey dal titolo “Reducing food loss: What grocery retailers and manufacturers can do”.
Numeri allarmanti, tanto più se messi in relazione a quelli sulla insicurezza alimentare.
Il numero di persone che soffrono di grave insicurezza alimentare e che necessitano urgentemente di cibo, nutrizione e assistenza per il proprio sostentamento è aumentato per il quarto anno consecutivo nel 2022, con oltre un quarto di miliardo di persone che affrontano la fame acuta e con persone in sette paesi a rischio della vita per la fame, secondo l’ultimo Rapporto Globale sulle Crisi Alimentari (GRFC), scrivono le Nazioni Unite.
Il rapporto rileva che, nel 2022, circa 258 milioni di persone in 58 paesi e territori hanno affrontato un’insicurezza alimentare acuta a livelli di crisi o peggiori (Fase IPC/CH 3-5), rispetto ai 193 milioni di persone in 53 paesi e territori nel 2021.
“Più di un quarto di miliardo di persone stanno ora affrontando livelli acuti di fame, e alcuni stanno rischiando la vita per la fame. È inconcepibile”, ha dichiarato il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres nella prefazione al rapporto. “Questa settima edizione del Rapporto globale sulle crisi alimentari è una aspra accusa all’incapacità dell’umanità di compiere progressi verso il secondo Obiettivo di sviluppo sostenibile di porre fine alla fame e raggiungere la sicurezza alimentare e una migliore nutrizione per tutti”.
Secondo il rapporto, oltre il 40 per cento della popolazione nella Fase 3 IPC/CH o superiore risiedeva in soli cinque paesi: Afghanistan, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, parti della Nigeria (21 stati e il Territorio della Capitale Federale – FCT ) e Yemen.
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Per saperne di più:
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