Vinitaly, Coldiretti: triplicate in 20 anni le esportazioni di vino italiano

Nel giro di un ventennio le esportazioni di vino Made in Italy sono quasi triplicate (+188%) arrivando a raggiungere 140 Paesi, con le bottiglie tricolori che rappresentano la prima voce delle vendite di prodotti agroalimentari nazionale all’estero. E’ quanto emerge dall’analisi Coldiretti su dati Istat relativi al commercio estero negli ultimi venti anni, diffusa per il Vinitaly che apre domani, domenica 14 aprile a Verona, dalle ore 9.30, con una serie di iniziative a Casa Coldiretti dedicate al fenomeno dell’enoturismo ma anche alle eccellenze della produzione vitivinicola nazionale.

 

Tra i principali mercati, il balzo maggiore – rileva Coldiretti – si è registrato in Francia dove la crescita è stata del 321%, per un valore che ammonta oggi a 316 milioni di euro, Negli Stati Uniti, primo sbocco del vino italiano, le vendite sono aumentate del 148% per un valore attuale di 1,76 miliardi di euro mentre per la Germania, secondo mercato, sono incrementate del 69% – continua Coldiretti -, attestandosi nel 2023 a quota 1,19 miliardi di euro. Boom del 186% in Gran Bretagna per un totale di 843 milioni di euro. I numeri del vino saranno protagonisti nello stand Coldiretti con le cifre del fenomeno. L’Italia può contare su 674.000 ettari di vigneto di cui 125.000 ettari coltivati in biologico, ma anche su 570 varietà autoctone, un record di biodiversità reso possibile dall’impegno di 240.000 aziende vitivinicole, con 529 vini a denominazione di origine tra Docg, Doc e Igt. Vino più forte delle difficoltà. Un settore più forte anche delle difficoltà sofferte nel 2023 – rileva Coldiretti -, tra una produzione scesa ai minimi del dopoguerra a causa degli attacchi della peronospera e le tensioni internazionali che hanno influito, seppur di poco, sull’andamento delle vendite e dei consumi.

 

Il programma di domenica 14/4 a Casa Coldiretti. Lo dimostra la capacità di aprirsi a nuove frontiere a partire dal fenomeno dell’enoturismo, che sarà al centro della giornata inaugurale del Vinitaly con la presentazione della prima indagine Ixe’. Numeri, dati e proposte si intrecceranno, offrendo al popolo degli appassionati del vino un’ampia panoramica sulle esperienze uniche offerte dalle cantine italiane. Dal wellness, con dimostrazioni dal vivo della preparazione di cosmetici a base di vinacce, all’arte, utilizzando il vino come medium creativo. Spazio anche alle degustazioni con appuntamento alle 14,30 dedicato ai “big” delle eccellenze italiane, a cura del Comitato di supporto alle politiche del vino promosso da Coldiretti e coordinato da Riccardo Cotarella, che riunirà alcune delle cantine più prestigiose del Vigneto Italia.

 

Prevista anche la firma di un importante accordo per un progetto pilota con Airbnb per potenziare l’offerta turistica nei vigneti nazionali, nel corso dell’incontro in programma alle ore 16 nella Sala Respighi del Palaexpo con la presenza del presidente nazionale di Coldiretti Ettore Prandini e di quella di Terranostra Dominga Cotarella, oltre a Valentina Reino, Responsabile Relazioni Istituzionali Italia e Sud Europa, Airbnb. Parteciperanno anche Luca De Carlo e Giorgio Maria Bergesio, rispettivamente Presidente e Vicepresidente della Commissione Industria, commercio, turismo, agricoltura e produzione agroalimentare del Senato e Raffaele Nevi, Segretario in Commissione Agricoltura della Camera dei deputati.

 




Vino, Zoppas (Ice): su export vino alcune criticità ma ci aspettiamo una buona ripresa. Sistema Italia centrale. VIDEOINTERVISTA

“In questo momento storico dobbiamo capire quale sia il futuro dell’export del vino perché per la prima volta in tre anni stiamo passando delle criticità. Fonti autorevoli pensano che possiamo aver toccato il fondo e che dunque nel 2024/25 ci possa essere una buona ripresa. Dobbiamo fare tutto il possibile per agevolare questa situazione, specialmente attraverso il sistema Italia. Con Ice e VeronaFiere stiamo lavorando per creare una nuova situazione in Usa, creando un momento di commercio che prima non esisteva, invitando i produttori e portando molti buyers e stakeholder del mondo del vino a partecipare per poter completare una gamma che già oggi è molto coperta, ossia del commercio ed esposizione del vino italiano negli Stati Uniti.”

Così Matteo Zoppas, Ice, a margine dei lavori della prima Conferenza Internazionale sul Vino (Wine Ministerial Meeting) dell’Oiv, ospitata dal Governo italiano in Franciacorta (Brescia).




Wine Meeting, i dati Ismea: si produce meno vino, ma i paesi top esportano sempre di più

A 100 anni dalla nascita dell’Oiv, Organizzazione internazionale della vigna e del vino, l’Italia ha voluto ospitare la Wine Interministerial Meeting presso la cantina Ca’ del Bosco, nel cuore della Franciacorta, in provincia di Brescia. Il ministro Lollobrigida con il Masaf ha riunito 31 paesi produttori per affrontare i temi di stretta attualità legati alla produzione vitivinicola e per programmare il prossimo futuro, sempre più legato alla sostenibilità ambientale e al cambiamento climatico.

Ismea ha provveduto a fotografare l’andamento del mondo vino in tutto il mondo. Nel nostro paese il comparto vale 13,8 miliardi di fatturato e vede impegnate su tutto il territorio 241 imprese, con 675mila ettari 2 33mila aziende vivificatrici. Nel 2023 la produzione è stata di 38 milioni di ettolitri, in calo del 23,2% rispetto all’anno precedente, ma è il volume globale a segnare il passo, almeno nei principali paesi produttori: nel 2023 si è fermato a 237 milioni di ettolitri. La media 2019-2023 segna un -5,4% per l’Italia, -18,2% per la Francia e -17,4% per la Spagna.

Nonostante altre nazioni stiano emergendo, come Australia, Cile, Stati Uniti e Sud Africa, il mondo segna un passo indietro anche per le superfici coltivate, che oggi arrivano a quasi 7,3 milioni di ettari rispetto ai 7,8 milioni del 2003. Del resto si beve meno, puntando però alla qualità. Nel 2023 si sono registrati 223 milioni di ettolitri consumati, 25 in meno rispetto al picco di 250 del 2008. In questo caso colpiscono i dati di singoli paesi: in Francia il calo 2023-2004 è stato del 27,8%, in Spagna quasi del 30% e in Italia del 21%. Al contrario si è assistito ad un vero e proprio boom negli Stati Uniti (+48,2%), Regno Unito (+17%), Cina (+12,5%) e Russia (+20,7%).

La vera battaglia dei produttori si gioca quindi sul mercato estero, piuttosto che su quello interno. In questo caso i dati confermano come sia questa la direzione attuale. Sempre per il periodo 2023-2004 l’Italia è cresciuta del 39%, la Spagna del 94%, mentre la Francia è scesa dell’8%. Boom per il Cile (+133%) e Argentina (+137%), ma con volumi decisamente minori rispetto ai tre paesi top. Nel periodo di riferimento 2023-2019 l’Italia prevale nei volumi di export, 21,4 milioni contro i 21,2 della Spagna e i 13,9 della Francia, ma sono i transalpini ad essere primi in classifica per il valore delle esportazioni con 10,8 miliardi di euro contro i 7,1 del nostro paese e i 2,9 degli iberici.

Sull’altra faccia della medaglia, quella delle importazioni, spiccano, sempre per il periodo 2023-2004, gli Stati Uniti con un +140% e soprattutto la Cina (+1046%). In Europa comprano più vino Germania (+23%), Regno Unito (+23%), Francia (+25%).

Chi consuma più vino? Gli Usa, con 33,7 milioni prevalgono su Francia, 24,6 e Italia, 23,2, mentre il podio dell’import vede Germania (14,2) davanti Regno Unito (13,2) e Stati Uniti (13).

A 100 anni dalla nascita dell’Oiv, Organizzazione internazionale della vigna e del vino, l’Italia ha voluto ospitare la Wine Interministerial Meeting presso la cantina Ca’ del Bosco, nel cuore della Franciacorta, in provincia di Brescia. Il ministro Lollobrigida con il Masaf ha voluto riunire 31 paesi produttori per affrontare i temi di stretta attualità legati alla produzione vitivinicola e per programmare il prossimo futuro, sempre più legati alla sostenibilità ambientale e al cambiamento climatico.

Ismea ha provveduto a fotografare l’andamento del mondo vino in tutto il mondo. Nel nostro paese il comparto vale 13,8 miliardi di fatturato e vede impegnate su tutto il territorio 241 imprese, con 675mila ettari 2 33mila aziende vivificatrici. Nel 2023 la produzione è stata di 38 milioni di ettolitri, in calo del 23,2% rispetto all’anno precedente, ma è il volume globale a segnare il passo, almeno nei principali paesi produttori: nel 2023 si è fermato a 237 milioni di ettolitri. La media 2019-2023 segna un -5,4% per l’Italia, -18,2% per la Francia e -17,4% per la Spagna.

Nonostante altre nazioni stiano emergendo, come Australia, Cile, Stati Uniti e Sud Africa, il mondo segna un passo indietro anche per le superfici coltivate, che oggi arrivano a quasi 7,3 milioni di ettari rispetto ai 7,8 milioni del 2003. Del resto si beve meno, puntando però alla qualità. Nel 2023 si sono registrati 223 milioni di ettolitri consumati, 25 in meno rispetto al picco di 250 del 2008. In questo caso colpiscono i dati di singoli paesi: in Francia il calo 2023-2004 è stato del 27,8%, in Spagna quasi del 30% e in Italia del 21%. Al contrario si è assistito ad un vero e proprio boom negli Stati Uniti (+48,2%), Regno Unito (+17%), Cina (+12,5%) e Russia (+20,7%).

La vera battaglia dei produttori si gioca quindi sul mercato estero, piuttosto che su quello interno. In questo caso i dati confermano come sia questa la direzione attuale. Sempre per il periodo 2023-2004 l’Italia è cresciuta del 39%, la Spagna del 94%, mentre la Francia è scesa dell’8%. Boom per il Cile (+133%) e Argentina (+137%), ma con volumi decisamente minori rispetto ai tre paesi top. Nel periodo di riferimento 2023-2019 l’Italia prevale nei volumi di export, 21,4 milioni contro i 21,2 della Spagna e i 13,9 della Francia, ma sono i transalpini ad essere primi in classifica per il valore delle esportazioni con 10,8 miliardi di euro contro i 7,1 del nostro paese e i 2,9 degli iberici.

Sull’altra faccia della medaglia, quella delle importazioni, spiccano, sempre per il periodo 2023-2004, gli Stati Uniti con un +140% e soprattutto la Cina (+1046%). In Europa comprano più vino Germania (+23%), Regno Unito (+23%), Francia (+25%).

Chi consuma più vino? Gli Usa, con 33,7 milioni prevalgono su Francia, 24,6 e Italia, 23,2, mentre il podio dell’import vede Germania (14,2) davanti Regno Unito (13,2) e Stati Uniti (13).

Per quanto riguarda l’Italia, sul territorio sono presenti 527 tra DOP e IGP: accanto alle 77 Docg sono presenti 332 Doc e 118 Igt. Il consumo pro capite è di 37 litri, ma nel 2023 si è registrato un calo del 2%.

Tuttavia la superficie a vite, rispetto al 2016, è cresciuta del 5%. L’Italia sta lavorando per aumentare il valore del vino venduto, ma i dati Ismea rilevano che la risposta del mercato varia in funzione della tipologia: i Dop sono in crescita del 3%, mentre il valore delle Igp scende dell’1,5% (riferimento 2023-2014). Moderata la crescita dei vini da tavola (+1,6%).

Sull’export la conferma del cambiamento arriva ancora una volta dai numeri: la produzione tra il 2022 e il 2023 è calata, ma per esempio il valore è cresciuto del 12,3% sulle Dop frizzanti e del 4,2% per gli spumanti. Crollo invece per gli spumanti Igp (-28.9%). Interessante, sempre per le esportazioni, il dato dei vini frizzanti comuni (+9,9%).

In generale, negli ultimi 10 anni, l’export è cresciuto in valore per il 56%, con le Dop che pesano per il 67%% anche grazie alla misura OCM Vino.




Ue, Lega: a rischio export formaggio, sollecitare soluzione con Commissione

“Per un cavillo burocratico sono a rischio le esportazioni di Parmigiano Reggiano e Grana Padano in Giappone. Dal 2026 non si potrà infatti più confezionare a destinazione le forme a pezzi, così come previsto dall’accordo di paternariato con l’Unione europea per venire incontro alle esigenze delle imprese casearie italiane, non ancora pronte ad esportare in forma ridotta come richiesto dal mercato giapponese. I formaggi sono tra i comparti in cui l’export è cresciuto di più nel 2023 proprio in Giappone, che resta il secondo Paese extra europeo per esportazioni casearie. Abbiamo sollevato il problema attraverso un’interrogazione al ministro dell’Agricoltura, nella quale chiedevamo una proroga della deroga all’esportazione delle forme in formati piccoli, consentendo il tempo necessario per l’adeguamento degli impianti ai canoni del mercato locale. Chiediamo al Masaf di intensificare l’interlocuzione che ci informa di aver avviato con la Commissione Ue, così come al MAECI, per giungere il prima possibile a una soluzione del problema,  al fine di salvaguardare gli investimenti già avviati dai produttori e garantire un futuro a un canale così importante per le esportazioni dei formaggi italiani”.
Così i senatori della Lega Elena Murelli e Gian Marco Centinaio, a seguito della risposta all’interrogazione indirizzata al ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida.



Macfrut, Zoppas (Ice): nostro lavoro centrale per internazionalizzazione imprese. Fiere fondamentali per export. VIDEOINTERVISTA

“L’Ice è un’agenzia del commercio estero. Naturalmente, se vogliamo contestualizzare bene questa attività sappiamo che più grande è un’azienda più si stacca dall’assistenza di enti governativi o di altro tipo perché ha più autonomia. Noi siamo più specializzati su quelle che sono le attività rivolte alle cosiddette piccole e medie imprese o anche le grandi imprese che non sono ancora presenti in alcuni Stati e che quindi hanno bisogno di capire come entrarci. È chiaro che quando andiamo all’estero la formula è 80 uffici dell’ICE a cui ci si può rivolgere per trovare clienti per assistenza doganale, certificazioni e quant’altro, ma noi organizziamo ogni anno circa 260 o 270 collettive alle fiere. Quindi aiutiamo le aziende ad andare all’estero ed incontrare dei clienti in loco nelle fiere organizzate per settore.”

Così il presidente di Ice Matteo Zoppas a margine della presentazione di Macfrut.

“In Italia portiamo dei buyers, quindi degli operatori che sono quelli che possono venire e incontrare alle fiere quelli che sono i produttori italiani che decidono di esporre. Naturalmente questo è un impegno forte, qui stiamo parlando di Macfrut che si incanala proprio nella categoria dell’agroalimentare ortofrutticolo. Macfrut sta crescendo sempre di più, quest’anno porta 1400 espositori, 40% addirittura sono stranieri, su 1500 buyers l’ICE ne porta 350. Portare 350 buyers vuol dire assicurare letteralmente vitto, alloggio, trasporto, viaggio e naturalmente quando ci sono gli espositori che stanno lavorando quando passa un buyer, un compratore o un potenziale cliente spesso e volentieri è portato dall’ICE. Il che significa preparato e formato, nel senso che gli facciamo tutta quello che è la preparazione per essere più disposto a comprare e scegliere il prodotto italiano.

Dopo tanto tempo in cui sono state messe in discussione le fiere come come piattaforma e strumento per la vendita, stiamo tornando a dire “continuiamo a seminare la crescita dell’export”,  partecipando, agevolando e spingendo queste fiere dove soprattutto, ripeto, la piccola e media impresa ha la possibilità di tessere quelle relazioni.

Relazioni che non sempre vengono chiuse come contratti durante la fiera, ma sono delle relazioni che col tempo poi vengono curate. Clienti e fornitori si devono conoscere, si devono apprezzare, devono conoscere i prodotti e poi col tempo quando ci sono delle occasioni di contrattazione, quindi di chiusura degli accordi si inizia un percorso verso l’internazionalizzazione. I primi anni le aziende possono magari contare qualche centinaia di migliaia di euro ma se poi il prodotto è buono viene riconosciuto e se il mercato è quello giusto possono diventare anche milioni di euro e vanno ad alimentare quei 626 miliardi di euro di fatturato che l’Italia fa nel mondo con l’export.

Siamo a quasi il 30% in più rispetto al 2019 quindi prima della pandemia e prima delle guerre. Questo significa che nonostante le problematiche, nonostante le maggiori onerosità, il cliente straniero ha preferito pagare di più piuttosto che non comprare italiano. E questo è un messaggio fortissimo di riconoscimento del made in Italy.”




Vino, Censis-Confcooperative, aumento dei costi, calo export e credito disegnano una congiuntura non facile

Un sentiero stretto, dal quale uscire in fretta. È quello che sta attraversando il comparto vitivinicolo italiano, chiamato a confrontarsi con diversi fattori di criticità che continuano a minare la competitività delle imprese e che rischiano alla lunga di avere impatti anche sull’indotto del settore. “Il problema numero uno si chiama costo del denaro a cui si aggiunge l’impennata dei costi delle materie prime che non registra ancora riduzioni consistenti”: la vede così  Luca Rigotti, presidente del settore Vino di Confcooperative in apertura della conferenza stampa organizzata da Confcooperative Fedagripesca e svoltasi oggi a Milano in collaborazione con la Regione Lombardia.

“Sui bilanci delle aziende – ha spiegato Rigotti – pesano ancora l’onda lunga dell’incremento dei costi produttivi, ai quali si sommano gli effetti inflazionistici e soprattutto l’innalzamento del costo del denaro che sta impattando pesantemente anche sulla capacità di spesa delle famiglie, un fattore che si ripercuote negativamente pure sul consumo del vino”. Lo scenario di difficoltà che sta attraversando il vino rappresenta per il Presidente del settore Vino di Confcooperative “una crisi strutturale, non congiunturale, con impatti differenti su prodotti e aree di produzione. A pesare sono anche i cambiamenti climatici che rendono sempre più difficile fare viticoltura”.

Ma quali sono gli elementi di scenario con cui le aziende si trovano a fare i conti? Nel corso della conferenza stampa è stato presentato uno studio Censis dal titolo “Il vino italiano si confronta con una non facile congiuntura”, i cui elementi principali sono qui di seguito esposti.

 

Gli effetti dei costi delle materie prime

Gli effetti della impennata dei costi delle materie prime sono ancora evidenti sui bilanci delle aziende vitivinicole. La crisi della logistica mondiale, dopo il forte rimbalzo delle attività economiche e a seguito della rimozione delle restrizioni ai movimenti di merci e persone imposte dalla pandemia, ha creato forti ritardi nella fornitura di materie prime e semi lavorati, determinando un’impennata dei prezzi di molti prodotti. Fra il 2020 e il 2023, ad esempio, gli imballaggi di legno per il settore del vino sono lievitati del 28,2%, il sughero del 14,8%, gli imballaggi di carta del 31,7%; questi ultimi, insieme agli imballaggi di legno, hanno avviato una riduzione del prezzo fra il 2022 e il 2023. Il vetro e, quindi, le bottiglie, hanno, invece, seguito una tendenza crescente a partire dal 2021: +20,4% fra il 2021 e il 2022, +25,3% fra il 2022 e il 2023. A consuntivo degli ultimi quattro anni, l’aumento del prezzo del vetro ha superato il 50%.

 

Il rallentamento dell’export e la crisi del canale di Suez

La domanda estera rappresenta una grande leva per il comparto del vino italiano. Negli ultimi anni, al pari del valore complessivo delle esportazioni e di quelle dell’agroalimentare, l’acquisto di vini italiani dei paesi esteri ha sempre mantenuto un segno positivo: fra il 2019 e il 2023 l’incremento del valore esportato è stato del 20,8%; su un più lungo periodo, 2013-2023, la crescita è stata nientemeno che del 54,2%.

Solo nell’ultimo anno si registra un segno negativo, comunque inferiore al punto percentuale (-0,8%). Rispetto al totale dei vini esportati, i frizzanti e gli spumanti si mantengono su una traiettoria di crescita (rispettivamente il 7,5% e il 3,3%), mentre perdono terreno i Dop e gli Igp (-0,6%), i comuni e varietali (vini senza Dop o Igp designati con il nome del vitigno, -2,5%), i vini fermi (-3,2%).

Negli ultimi mesi si profila uno scenario più critico per l’export italiano in genere e per l’export di vino in particolare. Se si osserva l’andamento della domanda di vino per aree di destinazione, fra il 2022 e il 2023 soltanto in Europa si riscontra un tasso di crescita positivo, che raggiunge il 3,6%. In tutte le altre aree il segno resta negativo: -9,7% per quanto riguarda l’Africa, -6,0% per l’intero continente americano, settentrionale e centromeridionale, ed è intorno al 12% la riduzione del valore in Asia e in Oceania (tab. 4).

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Tab. 4 – Una contingenza non favorevole all’export di vino: esportazioni mondiali di vino per area di destinazione. 2019-2023 (var. %)

Anche in questo caso la visione retrospettiva e di più lungo periodo propone un andamento decisamente favorevole per il vino rispetto al momento contingente. Fra il 2019 e il 2023, all’incremento dell’export verso l’Europa, pari al 25%, si associa un forte aumento del valore esportato in Africa (51,6%, sebbene su basi quantitative modeste), nelle Americhe (+15,4%), in Asia (+9,6%) e in Oceania (+11,7%). Complessivamente, nei cinque anni considerati il valore del vino esportato è cresciuto del 20,8%.

Ma se si osservano i dati dal punto di vista del potenziale di copertura dei mercati e di nuove opportunità da cogliere o di situazioni da consolidare in altre aree del mondo, non è difficile scorgere una recente deriva negativa proprio su quelle destinazioni che stavano acquistando una dimensione interessante.

Gli ultimi mesi del 2023 sono stati contrassegnati da gravi eventi di natura terroristica che hanno coinvolto il traporto commerciale via mare, nelle tratte basate sul passaggio del Mar Rosso e del Canale di Suez. Lo scenario incerto che si è venuto a creare nell’area mediorientale ha avuto un immediato contraccolpo sui costi e i tempi del trasporto, frenando la domanda di merci nel traffico fra Occidente e Oriente, costringendo alla revisione delle rotte e obbligando alla traversata attraverso il Capo di Buona Speranza.  Il settore del vino e le sue esportazioni, non sono rimasti al riparo da questi eventi, e il dettaglio di ciò che è avvenuto in alcuni paesi conferma la perdita di spazi di mercato di recente conquista.

Il Vietnam, ad esempio, è passato dai 12 milioni di euro di vino acquistato nel 2019 ai 25 milioni del 2022, per poi ridurre a 16 milioni l’acquisto nel corso del 2023 (-33,9%). La Corea del Sud era passata da una domanda di 33 milioni del 2019 ai 76 milioni del 2022; nel 2023 l’importo è sceso a 51 milioni (-32,5%). Un andamento analogo si ritrova per gli acquisti della Thailandia: 11 milioni nel 2019, 24 milioni nel 2022, 18 milioni nel 2023 (con una riduzione sull’anno precedente pari al 24,6%). Anche l’Australia ha ridotto la spesa in vino italiano: pur passando da 63 milioni di vino acquistato nel 2019 agli attuali 73, nei fatti fra il 2022 e il 2023 si è registrato un decremento di oltre di 9 milioni (-11,2%).

In sintesi, se si guarda alla variazione totale dell’export fra il 2022 e il 2023 – pari allo 0,8% in meno e corrispondente a circa 64 milioni di euro – si coglie solo una parte dell’impatto che si è concretizzato fra un anno e l’altro.

 

Credito

Secondo i dati dell’Abi, il tasso praticato in Italia alle imprese per prestiti fino a un milione di euro è passato dall’1,75% del dicembre 2021 al 5,72% del dicembre 2023. Nel caso dei prestiti superiori al milione di euro, dal tasso dello 0,89% del dicembre 2021 si è passati al 5,28% di due anni più tardi. Nel confronto con la media dei paesi dell’Area euro, le condizioni praticate in Italia risultano più restrittive in entrambe le categorie di prestiti presi in esame.

Nell’ultima Congiuntura agroalimentare di Ismea relativa al IV trimestre del 2023, è emerso che il 30% degli operatori dell’industria alimentare ha richiesto e ottenuto nell’ultimo anno un prestito dalle banche, mentre il 64% ha dichiarato di non averne fatto richiesta e il 3% si è visto rifiutare la richiesta o ha rinunciato per le condizioni proibitive proposte.

Tra quelli che hanno ottenuto un credito, la maggior parte degli operatori (57%) si è rivolto alla banca per un finanziamento a medio-lungo termine (oltre 18 mesi), soprattutto per l’acquisto di macchinari e attrezzature (per il 40%) e per la costruzione o ri-strutturazione di fabbricati e/o impianti (24%).

Rispetto alle condizioni di accesso al credito, il 44% delle imprese dell’industria alimentare ritiene ci sia stato un peggioramento fra il 2022 e il 2023, dovuto prevalentemente agli elevati costi associati alle richieste di credito bancario.




Agricoltura, Lombardia. Beduschi: bene export (+7,2%) e aumento della produzione (+4,9%)

Il sistema agricolo lombardo ha superato nel 2023 i 10.5 miliardi di valore, con una produzione cresciuta del 4,9%. Aumentano volumi (+2,6%) e prezzi (+2,3%), a fronte di una crescita della produzione nazionale che segna un +2,7%. A fotografare il valore dell’agricoltura lombarda anche il dato sul valore aggiunto (+5,2%), attestando la performance del comparto regionale al di sopra del dato italiano complessivo, dove il dato si è ridotto del -2%.

Questi, in sintesi, i dati del ‘Rapporto 2023 sul Sistema Agroalimentare della Lombardia’ presentato a Unioncamere.

“Il sistema agroalimentare lombardo – ha commentato l’assessore regionale all’Agricoltura, Sovranità alimentare e Foreste, Alessandro Beduschi – nel 2023 ha fatto registrare risultati soddisfacenti, che confermano la capacità costante del mondo agricolo regionale di adattarsi a contesti globali instabili. Il nostro impegno è quello di continuare a supportare questo comparto strategico per migliorare il livello di competitività, coniugando le esigenze produttive agricole con la sostenibilità ambientale, economica e sociale attraverso l’investimento in innovazione”.

 

“L’agricoltura lombarda – ha detto Gian Domenico Auricchio, presidente di Unioncamere Lombardia – si conferma un’eccellenza del sistema economico regionale con un apprezzamento dei nostri prodotti sui mercati internazionali. Con l’export agroalimentare lombardo che è cresciuto del +7,2% a fronte del +5,8% italiano. Un risultato importante in un anno come il 2023 che ha visto una battuta d’arresto del commercio mondiale. Tali risultati positivi sono confermati anche dalle buone aspettative degli agricoltori per i prossimi mesi”.

Le aziende intervistate, a causa del lieve rallentamento dei costi, hanno evidenziato una redditività positiva nella seconda metà del 2023, in particolare nell’ultimo trimestre: il 30% ha giudicato soddisfacente l’andamento degli affari, il 20% invece negativo e il 50% stabile. Le aspettative future degli agricoltori confermano un clima di fiducia positivo per il futuro.

Le preoccupazioni riguardano invece la vulnerabilità del settore rispetto alle oscillazioni dei prezzi di vendita e di acquisto dei fattori produttivi, i vincoli più stringenti della PAC e i cambiamenti climatici.

L’analisi del comparto agricolo per settore evidenzia alcuni dati:

– resta elevata la redditività nel comparto suinicolo, dove le quotazioni sono ai massimi degli ultimi anni dovuto al calo dell’offerta e con la tenuta della domanda finale. Continua a preoccupare la diffusione della Peste Suina Africana;

– è positiva la chiusura d’anno per il vino, dopo un anno non facile, grazie alla crescita dei prezzi legata agli scarsi esiti produttivi della vendemmia a livello nazionale (-20% a fronte di un risultato lombardo in lieve aumento). Cresce inoltre l’export regionale, in controtendenza rispetto al dato italiano;

– è in difficoltà il comparto lattiero-caseario, dove l’indice di redditività si è progressivamente ridotto nel corso dell’anno per via dell’andamento cedente del prezzo del latte alla stalla e di una domanda debole dei consumatori. Nello specifico tengono le quotazioni del Grana Padano. Buone notizie sul fronte dei costi, in riduzione grazie alla discesa del prezzo dei mangimi;

– dopo il miglioramento nella prima metà dell’anno, resta nel complesso stabile la situazione dei cereali, con raccolti in crescita a seguito della crisi del 2022. Il livello di redditività si conferma però inferiore alla media: i costi rimangono elevati e i prezzi su livelli molto bassi, in particolare per mais e riso;

– il comparto delle carni bovine conferma un indice di redditività negativo, ma in miglioramento rispetto alla prima metà dell’anno grazie ai consumi domestici in ripresa e ai costi in riduzione. Andamento differenziato per i prezzi, con quotazioni che restano elevate per i vitelloni e scendono per i bovini adulti.




Crisi Mar Rosso, Maretti (Legacoop Agroalimentare): triplicati costi dei container, la Bce riduca i tassi

Gli attacchi houthi nel mar Rosso, da dove transita il 40% dell’import/export italiano, hanno effetti pesanti sullo spostamento delle merci italiane e sui loro costi. Negli ultimi mesi si è avuto una diminuzione del transito dal mar Rosso del 43% cui ha fatto riscontro un +41% di passaggi dal Capo di Buona Speranza. La conseguenza è stato un vertiginoso aumento dei costi che ha significato una contrazione del 17% della marginalizzazione dei porti italiani. (fonte Capitanerie di Porto).

Noli triplicati, meno merci nei porti italiani. «I noli dei container continuano a registrare aumenti tra i 1500 e i 2000 euro. Adesso siamo arrivati a 4000-5000 euro sulla tratta per gli Emirati Arabi da Trieste-Genova-Vado Ligure. Con l’incognita, poi, di addizionali ulteriori», commenta Cristian Maretti presidente di Legacoop Agroalimentare.

Mele a rischio, vino non competitivo per gli extra costi di trasporto. IL problema dei costi e dei tempi si lega alla competitività del cibo made in Italy. «Il rischio è di perdere la vendita delle merci. Nonostante le protezioni militari, alcuni operatori marittimi hanno sospeso la linea che prevede il passaggio da Suez. E quindi la diminuzione dei costi dei trasporti che attendevamo non si è realizzata», spiega Maretti. Per quanto riguarda nello specifico le merci, se non si sono avuti problemi per quanto riguarda l’importazione degli imballaggi», sottolinea il presidente di Legacoop Agroalimentare, «c’è preoccupazione per quanto riguarda la spedizione delle mele dal momento che la seconda parte della campagna di commercializzazione risente in pieno proprio di questa situazione. A subire è anche il vino. Ormai si è stabilizzato l’incremento dei costi di un più 30% visto che il passaggio da Capo di Buona Speranza è diventata una consuetudine. E purtroppo gli operatori ormai lo considerano un extra costo che fa perdere tender su mercati giocati sui millesimi di euro».

Difficoltà anche per i tempi: situazione complicata.Conseguenza del cambio delle rotte commerciali dovuto agli attacchi houthi alle navi container è l’allungamento dei tempi per la diversa rotta che deve essere seguita, quella da Capo di Buona Speranza, appunto. «La situazione è decisamente ancora molto complicata. Alcune navi continuano a registrare ritardi ed è difficile garantire i 15-20 giorni di navigazione per la penisola araba», spiega Maretti. «Come alternativa, l’ipotesi di circumnavigare l’Africa è improponibile perché le tempistiche si dilatano in modo sensibile e non si sposano con la qualità dell’ortofrutta: c’è un problema di shelf-life dei prodotti freschi».

Tassi da rivedere da parte della Bce. Tutto questo «è un elemento in più da considerare da parte della Bce per avviare la politica di riduzione dei tassi perché rimane ormai l’unico spazio di azione per dare una mano ai bilanci delle imprese nel 2024», conclude Maretti.




Export, Coldiretti Toscana: record per made in Tuscany a tavola (+5%). La classifica delle esportazioni in Europa

Nuovo record per il Made in Tuscany a tavola nel 2023 con quasi 3,5 miliardi di euro di esportazioni nel mondo. E’ il miglior risultato di sempre. Nonostante le turbolenze internazionali, i conflitti in corso e l’inflazione strisciante l’agroalimentare regionale ha continuato a marciare spedito all’estero abbattendo un primato dopo l’altro. Nell’anno appena concluso il valore di vino, olio, piante, ortaggi, frutta, pasta e di tutti gli altri prodotti del paniere è aumentato di oltre 160 milioni di euro (+5%). A dirlo è Coldiretti Toscana sulla base del dati sulle esportazioni rilevati dall’Istat nel 2023. “Il temuto rallentamento non c’è stato. Il mercato UE ha tenuto molto bene con incrementi anche importanti, così come quello statunitense che rappresenta il primo sbocco extra Ue. – analizza Letizia Cesani, Presidente Coldiretti Toscana – Questi risultati sono ancora più significativi alla luce dell’attuale contesto geopolitico ed economico ma anche del fenomeno del tuscany sounding e delle frodi agroalimentari che generano un volume d’affari pari a quello delle esportazioni. In questo senso il nuovo regolamento europeo sulle DOP e IGP approvata dal Parlamento Europeo punta ad alzare il livello di protezioni, anche sulle piattaforme online, per tutelare le produzioni di qualità del nostro Paese e della nostra regione. La riforma è una delle poche buone cose fatte dall’Europa in questi anni”.

L’Europa, inteso come il mercato di libero scambio formato dai 27 paesi membri, si conferma il motore dell’export regionale con 1,8 miliardi di euro di valore di prodotti commercializzati (+7%). Quello tedesco è il mercato più importante con 489 milioni di euro (+4%) poi seguono la Francia con 377 milioni (+7,7%), i Paesi Bassi con 124 milioni (+10,7%) e la Spagna con 105 milioni che registra una crescita del 42% delle esportazioni nell’ultimo anno. Al di sotto della soglia dei 100 milioni di euro ci sono tutti gli altri paesi con differenze però sostanziali tra il Belgio che acquista 70 milioni di euro di prodotti Made in Tuscany e Cipro e l’Estonia con appena 4,1 milioni di euro. Tra i mercati che hanno segnato balzi a doppia cifra ci sono, oltre alla Spagna, la Polonia con 57 milioni di euro (+32%), la Romania con 35 milioni di euro (+25%), la Finlandia (+30%) e la Lituania (+26%). Il mercato statunitense è saldamente il primo sbocco extra Ue per l’alimentare toscano con 870 milioni di euro di prodotti venduti (+5,2%). In sofferenza il mercato canadese (-9%) il cui valore resta comunque rilevante con 172 milioni di euro ma anche quello cinese (-7,3%). Continua la discesa per quello russo che dopo l’inizio della guerra e le sanzioni si è dimezzato toccando il minimo con 26 milioni di euro. Il vino è il prodotto più commercializzato con quasi 1,2 miliardi di euro (-4%) insieme all’olio e derivati con 996 milioni di euro (+16,6%).

Il primato del Made in Tuscany all’estero è trainato da un’agricoltura tra le più green d’Europa con – evidenzia Coldiretti Toscana – con il 34% delle superfici biologiche e quasi 10 mila operatori impegnati, 467 specialità alimentari tradizionali e 90 filiere del cibo e del vino Dop e IGP sostenute dal progetto di Campagna Amica, la dalla più ampia rete dei mercati di vendita diretta degli agricoltori.

Per sostenere il trend di crescita dell’enogastronomia serve però – conclude Coldiretti Toscana – rimuovere gli ostacoli commerciali ma anche agire sui ritardi strutturali dell’Italia e sbloccare tutte le infrastrutture che migliorerebbero i collegamenti tra sud e nord del paese, ma anche con il resto del mondo per via marittima e ferroviaria in alta velocità, con una rete di snodi composta da aeroporti, treni e cargo. “Il tema delle infrastrutture – prosegue la presidente regionale, Letizia Cesani – è determinate per connettere il nostro paese e le nostre imprese al resto del mondo così come è fondamentale stabilire il principio di reciprocità in tutti gli accordi commerciali che per noi significa: i prodotti provenienti dall’esterno dell’Unione Europea devono soddisfare gli stessi requisiti in termini ambientali, sanitari e nel rispetto delle norme sul lavoro vigenti nella Ue. E’ inaccettabile – conclude la presidente Cesani – l’approccio con cui l’Unione europea prende decisioni senza studi di impatto ed ecco perché è fondamentale che le rappresentanze europee del settore stabiliscano una più stretta collaborazione tra loro”.

La classifica dei paesi UE

Germania 498 milioni (+4%)

Francia 377 milioni (7,7%)

Paesi Bassi 124 milioni (+10,7%)

Spagna 105 milioni (+42%)

Belgio 70 milioni (+10%)

Austria 64,5 milioni (+0,16%)

Polonia 57 milioni (+32%)

Svezia 45,5 milioni (+1,3%)

Danimarca 40,7 milioni (+4%)

Romania 35 milioni (+25%)

Grecia 27 milioni (+8%)

Repubblica Ceca 23,3 milioni (+18%)

Ungheria 23 milioni (+9,5%)

Croazia 17,8 milioni (+22%)

Irlanda 17,3 milioni (+3,6%)

Slovenia 14,8 milioni (+11%)

Portogallo 14 milioni (16,7%)

Finlandia 13 milioni (+30%)

Lettonia 12,4 milioni (21,6%)

Slovacchia 10 milioni (=)

Bulgaria 8,9 milioni (+1%)

Lituania 7,3 milioni (26%)

Malta 4,9 milioni (+4%)

Lussemburgo 4,2 milioni (-16%)

Estonia 4,1 milioni (-11%)

Cipro 4,1 milioni (+2,5%)

Fonte Coldiretti su dati Istat

 

 

 

 




Unione Italiana Food. Italia si conferma leader mondiale della pasta: nel 2023 oltre 2,2 mln di tonnellate esportate

La produzione mondiale di pasta oggi sfiora i 17 milioni di tonnellate e l’Italia è ancora prima al mondo nella classifica dei paesi produttori, con 3,6 milioni di tonnellate (precediamo Turchia e USA) e un fatturato che sfiora i 7 miliardi di euro. 

Gli italiani ne sono i più grandi consumatori, con circa 23 chili annui pro-capite e un totale di 1,3 milioni di tonnellate consumate, ma anche quelli che più di tutti la fanno conoscere al resto del mondo: ben oltre la metà della produzione nazionale di pasta è destinata all’estero (circa il 61%). 

Il buon andamento dell’export è confermato daun’elaborazione di Unione Italiana Food su dati Istat (gennaio-dicembre 2023): oltre 2,2 mln di tonnellate esportate, con una leggera contrazione in termini di volumi (-3,7% rispetto al 2022), che ha interessato gran parte del comparto agroalimentare, a fronte di un valore pari a 3,8 mld di euro (+3% rispetto al 2022). Della pasta esportata circa 1,5 mln di tonnellate è destinato ai paesi dell’UE mentre quasi 780.000 tonnellate finiscono in paesi terzi. 

L’export nei Paesi Ue occupa infatti il 64,8% del totale, poco meno rispetto al 65% registrato nel 2022, mentre il restante 35,2% riguarda i Paesi non UE, America, Asia, Africa, Oceania.  Germania (425.134 tonnellate), Regno Unito (278.043 tonnellate), Francia (264.269 tonnellate), Stati Uniti (247.088) e Giappone (67.233) si confermano i paesi più ricettivi.

Inoltre, la voglia di spaghetti&co prodotti nel Belpaese registra crescite tra il 5 e il 20% in Brasile, Israele, Finlandia, Slovenia, Albania, Marocco, Perù, Lussemburgo, Portogallo, tra il 20 e il 50% in Libano, Australia, Somalia, Georgia, Cuba, Egitto, Pakistan, Nepal, superiori al 50% in paesi asiatici come Mongolia, Pakistan e Sri Lanka. Buoni segnali rispetto ai consumi si registrano anche in alcuni paesi africani comeCamerun, Ruanda, Mozambico e Nigeria, favoriti probabilmente da un piccolo incremento del turismo in queste zone.

Infine, sono quasi raddoppiati in venticinque anni i paesi dove si consuma più di 1 kg pro capite di pasta all’anno. In Italia il consumo pro capite è di 23 chilogrammi, contro i 17 kg della Tunisia, seconda in questa speciale classifica. Seguono Venezuela (15 kg), Grecia (12,2 kg), Perù (9,9 kg) Cile (9,6 kg), Stati Uniti (8,8 kg), Turchia (8,7 kg), Iran (8,5 kg), Francia (8,3 kg) e Germania (7,9 kg).

“Oggi oltre il 60% dei pacchi di pasta prodotti in Italia viene esportato – spiega Margherita Mastromauro, Presidente dei Pastai Italiani di Unione Italiana Food e se la pasta italiana gode all’estero di tanto successo e ha un percepito estremamente positivo è merito del saper fare centenario dei pastai italiani”. 

La pasta si conferma un alimento sempre più sostenibile, versatile, nutrizionalmente bilanciato e accessibile. Anche il suo packaging permette un recupero al 100% dei materiali di imballaggio e si va verso nuovi metodi di cottura grazie anche al miglioramento dei processi produttivi. Ma sostenibilità significa anche dar vita a contratti di filiera che puntano su coltivazioni a basso impatto ambientale e buone pratiche agricole. Questo alimento ha una footprint estremamente bassa (l’impronta 1 m² globale per porzione) e a tavola è protagonista di tante ricette antispreco che valorizzano gli avanzi in piatti sostanziosi e prelibati.




Grano, Turchia diventa secondo esportatore mondiale dopo la Russia. E il 40% lo importa l’Italia. Al via l’Open Stocking

Nel 2023, la Turchia è diventata il secondo esportatore mondiale di grano duro, recuperando ben quattordici posizioni, rispetto al 2013, nel ranking mondiale degli esportatori e passando da Paese importatore netto di questo cerale, a Paese leader su scala globale.

La competizione agguerrita che ha esercitato quest’anno con volumi un tempo impensabili per questo Paese, da sempre importatore netto, ha portato il Canada (colosso produttore di grano duro) a slittare, a fine campagna, dal primo al quarto posto degli esportatori globali. A febbraio il ranking mondiale era completamente ribaltato: Russia, al primo posto, seguita da Turchia, Kazakhstan e, poi, Canada.

Le conseguenze di questo nuovo scenario competitivo sono che, innanzitutto, Ottawa sta aumentando gli areali destinati alla semina di grano per compensare le perdite di resa. Si assiste, inoltre, ad una pericolosa corsa al ribasso dei prezzi che i player nordamericani stanno contrastando puntando sulle aggregazioni produttive e su grani di qualità, come il Khorasan venduto a marchio Kamut.

La multinazionale nordamericana ha già annunciato di volere espandere le superfici di produzione anche fino al raddoppio degli attuali 28mila ettari.
La variabile ‘Turchia’ – Per consolidare questo nuovo primato di mercato, Ankara sta aumentando pesantemente gli stock anche acquistando grano duro world wide.

Quello che i commentatori hanno definito ‘l’effetto Turchia’, è indubbiamente la breaking news della campagna cerealicola 2023/2024.
Basti guadare i dati.

Negli ultimi dieci anni, Ankara (che è sempre stata un importatore netto di grano duro) è passata dall’esportazione di 42 tonnellate (registrata nel 2013 a fronte di un import di oltre 580mila tonnellate), all’export di 1,3 milioni di tonnellate di quest’anno (il 40% delle quali vendute in Italia che è il principale produttore di pasta al mondo).

L’import, per contro, 2023 è stato di 285 mila tonnellate, in riduzione rispetto alla media degli ultimi anni.
Dalla differenza dei prezzi euro/chilo all’importazione e all’esportazione, la Turchia ha generato, inoltre, una plusvalenza di almeno 1,3 miliardi di lire turche (circa 40 milioni di euro) rivendendo a circa 400 euro a tonnellata prodotto acquistato dall’estero a 370 e dagli operatori nazionali a 250 euro.

I principali importatori turchi di grano duro nel 2023 sono stati Russia e, ancor prima Kazakhstan, da cui ha acquistato, nel 2023, circa 104mila tonnellate, nonostante la Repubblica del Centr’Asia registri quest’anno perdite di produzione del 37% a causa di condizioni climatiche avverse, secondo quanto riferito da fonti accreditate.

In questo, sono talmente forti i sospetti di triangolazioni che la Commissione europea ha avviato un’indagine per capire l’orikgine del grano duro che arriva in UE, soprattutto in Italia, primo trasformatore mondiale di pasta che deve assolutamente mantenere il ritmo di produzione anche per recuperare la perdita di fatturato degli anni precedenti. In sintesi, i molini devono avere grano di buona qualità da macinare e a buon prezzo, senza se e senza ma e quello turco rappresenterebbe una risposta quantitativamente e qualitativamente adeguata per sostenere la crescita di prezzo della pasta che si registra sui mercati mondiali (+12% in Europa, +8% in Usa).

Sicché, il balzo in avanti della Turchia nell’export di frumento duro, ancora tutto da capire, ha impattato pesantemente sul commercio cerealicolo globale generando un crollo dei prezzi del tutto inaspettato, tanto più se si considera che i principali Paesi produttori del mercato hanno tutti avuto perdite di raccolto a causa delle condizioni meteorologiche avverse che sono state il minimo comun denominatore di questa campagna.

Secondo il report informativo per la Commissione sperimentale nazionale del grano duro del ministero italiano dell’Agricoltura, realizzato da una collaborazione tra Ismea, Istituto nazionale di servizi per il mercato agroalimentare, e le borse merci telematiche delle principali piazze italiane (Bologna, Foggia, Milano e Roma), i cali di rese, oltre a quelli riferiti dal Kazakhstan, sono stati del 30% in Canada, dell’11% in Algeria, del 7,3 negli USA; del 5,5% in Europa e del 4,1% in Messico.

Inoltre, il Consiglio internazionale dei cereali stima che la produzione mondiale di frumento nel 2023/24 sarà al suo livello più basso degli ultimi 22 anni, con le scorte mondiali destinate a scendere al loro livello più basso degli ultimi 30 anni.
In questo scenario, la Turchia, per contro, ha visto un’incremento dei volumi prodotti di circa il 15%, dovuto, secondo quanto annunciato dal governo turco, ad un andamento meteorologico particolarmente favorevole.

La politica cerealicola turca – Fonti ufficiali di Ankara rivelano che la produzione nazionale di grano duro nel 2023 ha raggiunto il livello più alto in 18 anni. Se nel 2021, è stata di 3,15 milioni di tonnellate, nel 2022 di 3,75 milioni di tonnellate, nel 2023 è arrivata a 4,3 milioni di tonnellate con un incremento del 15% anno su anno.

La particolarità di questa campagna, oltre alla conquista del ruolo di esportatore leader, va inquadrata anche nelle dinamiche interne del settore.
Quest’anno, le operazioni di trading di Ankara, sono state svolte direttamente dallo Stato che ha acquistato dagli agricoltori tramite l’Ufficio nazionale delle colture del suolo (TMO), bypassando completamente l’industria di trasformazione che è rimasta fuori dai giochi anche a causa di problemi finanziari a causa della difficoltà di accesso al credito per l’impennata dei tassi di interesse registrata da giugno con la nomina alla presidenza della banca centrale della Repubblica turca della prima governatrice donna, Hafize Gaye Erkan.

Erkan, con un curriculum in ruoli apicali presso, fra gli altri, Goldman Sachs e la statunitense First Republic Bank, ha invertito la rotta della politica economica di Erdogan, denominata ‘Erdoganomics’ perché si è discostata molto delle linee guida della macroeconomia ortodossa.
Il presidente turco, fino a giugno scorso, aveva condotto il Paese verso un’inflazione che ha raggiunto picchi dell’85% con una perdita del valore della lira turca che, nel solo 2023, è stata del 30% rispetto al dollaro Usa, e del 78% se si prendono in considerazione gli ultimi cinque anni.

Per raggiungere questi ‘risultati’ ha speso la maggior parte delle riserve estere per sostenere la lira turca. Alla base di questa politica economica suicida finalizzata alla contrastare il grave impoverimento delle popolazione (sia pure in maniera effimera), c’era il suo obiettivo di venire rieletto alla presidenza, al voto di maggio. Cosa che poi avvenuta a seguito di un ballottaggio piuttosto serrato.

Secondo quanto riferito da Ahmet Guldal, direttore generale dell’Ufficio turco delle colture del suolo, la quantità di cereali prelevati dai produttori nella stagione 2023-2024 supera i 12 milioni di tonnellate che sono state conferite pagando ai produttori il prezzo ‘incredibile’ di 100 miliardi di lire turche (circa 800 lire turche a tonnellata, meno di 250 euro, a cui il governo ha aggiunto anche un bonus ulteriore di mille lire turche a tonnellata, altre 31 euro), il 25% in più rispetto alle quotazioni normalmente riconosciute dall’industria di trasformazione.

“Alla luce dei dati recenti – ha dichiaro Guldal alla rivista ekonomim.com – la produzione mondiale di frumento si riduce del 2,6% arrivando a 783 milioni di tonnellate. Nonostante una certa riduzione, le scorte di apertura della campagna turca erano a livelli record. Inoltre, anche la produzione del principale esportatore mondiale di grano, la Russia, ha registrato un altro livello record. Nelle operazioni di raccolta, sono stati coinvolti 2.500 addetti, 614 punti d’acquisto in tutto il Paese per arrivare a gestire un raccolto record di di oltre 12 milioni di tonnellate”.

“Con tali volumi – precisa Guldal – occorre anche un coordinamento dettagliato dello stoccaggio. L’Ufficio nazionale delle colture del suolo ha una propria capacità di stoccaggio di 4 milioni di tonnellate. Quest’anno, l’ha aumentata a 9,7 milioni di tonnellate, concedendo, per la prima volta, autorizzazioni a magazzini esterni tramite licenza. Una volta superata la quota di stoccaggio, abbiamo anche reso disponibili dei magazzini in affitto per arrivare ad avere un’ulteriore quota di prodotto accantonato di 2,5 milioni di tonnellate”.

Questa politica, chiamata di ‘open stocking’, è stata coordinata interamente dall’Ufficio nazionale delle colture del suolo e ha incrementato la capacità di stoccaggio fino ad arrivare a quota potenziale di 22 milioni di tonnellate di cui 6,5 milioni da magazzini autorizzati e in affitto.
Il mercato italiano del grano duro – ‘L’anomalia turca’ del 2023 ha mandato in sofferenza gli agricoltori italiani e tutti i player del mondo occidentale, primo fra tutti i Canada.
Quest’ultimo che sperava di rifarsi nella seconda parte della stagione cerealicola, adesso si ritrova parecchio prodotto che non riesce a vendere a causa della saturazione del mercato con la conseguenza che le quotazioni sono scese a 260 euro a tonnellata a febbraio e che i suoi stock stanno salendo alle stelle anche per via del grano di riporto, ossia spedito e restituito al mittente.

“Se anche la Turchia abbia raddoppiato la produzione media nel corso del 2023 – precisa Carlo Maresca, presidente della Federazione nazionale cereali alimentari di Confagricoltura, Confederazione Generale dellaAgricoltura Italiana, uno dei principali sindacati dei produttori del Paese -, il che di per sé è già un dato sorprendente; significherebbe che in alcune zone produttive del Paese, le rese siano state addirittura triple e questo è impossibile. Da qui si può dedurre che le operazioni di trading internazionale di frumento duro operate dalla Turchia nel 2023, soprattutto nei mesi di giugno, luglio, agosto e settembre, non possono essere giustificate solo da un aumento della produzione interna”.
Il sospetto degli operatori è che, dietro questo exploit, si possano celare operazioni di dumping finanziario in violazione degli accordi doganali tra Unione e Turchia. Sono molti i dubbi e interrogativi da parte dei player su questa manovra, che ha consentito al settore molitorio e pastaio italiano di disporre di materia prima estera in anticipo sui normali tempi di consegna da Usa e Canada e ad un prezzo stracciato rispetto alle quotazioni nazionali ed ai prezzi di riferimento internazionali.

Per questo motivo in passato sono state presentate alcune interrogazioni parlamentari in Parlamento Ue, in Senato e alla Camera il cui obiettivo era cercare di capire se la Turchia (o anche la Russia aggirando l’embargo), abbiano effettivamente commesso un’attività di dumping e, se così fosse, perché non siano state fermate. In seconda battuta, verificare se siano stati effettuati adeguati controlli sanitari alla frontiera ai sensi del Regolamento Ue 1158/2020, atteso che le derrate provenienti da Turchia e Russia sono a rischio di contaminazione nucleare, precisamente da Cesio 137, un radionuclide risultato dell’esplosione della centrale nucleare di Cernobyl, avvenuta nell’aprile 1986.

Anche la Commissione Europea è stata chiamata in causa per accertare se dietro il crollo dei prezzi in Italia c’è un caso di dumping in violazione degli accordi doganali tra Unione e Turchia.
Cosimo Montanaro, responsabile dell’Area Mercati, Analisi e informazioni del mercato agricolo e agroalimentare di Ismea segnala, però, che: “Il frumento turco non può influenzare il mercato nel mondo perché non ha un ruolo importante nell’export mondiale. Si tratta di cifre irrisorie rispetto al valore del mercato mondiale nel suo complesso che, tra import ed export, si riferisce a circa 40 milioni di tonnellate di prodotto. Il fenomeno di boom di esportazioni turche, circoscritto ai mesi estivi, andrebbe letto, con ogni probabilità, in un’ottica meramente congiunturale”.
Si dubita che il cosiddetto ‘effetto Turchia’ possa essere un fenomeno di una sola stagione. Secondo la Fao, quello destinato al mercato europeo ha registrato un costante incremento nell’ultimo quinquennio. Si è passati dalle 30mila tonnellate del 2019, alle 46mila del 2022 a circa 1 milione nel 2023 a conferma di una politica espansionistica in atto in questo settore da parte di Ankara.

“La mancanza di trasparenza su queste operazioni – precisa Valerio Filetti, presidente dell’associazione granaria di Bologna – richiederebbe analisi approfondite tanto più che stiamo parlando di un boom di export da un Paese che è da sempre stato importatore netto di grano duro per via di una produzione gravemente deficitaria rispetto al fabbisogno nazionale. Le dinamiche della guerra in Ucraina hanno variato canali di sbocco naturali e non essendoci più la disponibilità di alcuni porti nel flusso regolare delle merci da questi paesi, il trasporto si è spostato su altri mezzi come quelli su strada e su ferrovia”.
Il mercato italiano della pasta – L’Italia esporta ogni anno 3,6 milioni di tonnellate di pasta che generano un giro d’affari di 7 miliardi di euro. Una cifra che è in ascesa anche a causa della spinta inflattiva generalizzata.

“Non esistono ancora dati definitivi relativamente alle importazioni di grano duro turco in Italia nel primo semestre (luglio-dicembre 2023) dell’attuale campagna di commercializzazione – afferma Piero Luigi Piano, direttore di Italmopa, l’associazione dell’industria molitoria italiana -, ma stimiamo che il volume totale possa risultare di 450mila tonnellate circa, su un totale di circa 1,1 milioni tonnellate di frumento duro importate da paesi terzi. L’Italia è strutturalmente deficitaria in frumento duro e le importazioni coprono mediamente il 35 percento del fabbisogno dell’Industria della trasformazione. E’ importante precisare che tali importazioni sono complementari e non alternative alla produzione nazionale e pertanto il loro volume fluttua annualmente in funzione dell’esito quantitativo e qualitativo del nostro raccolto. Certamente i risultati non sempre soddisfacenti registrati negli ultimi anni, soprattutto per via di condizioni climatiche sfavorevoli, hanno necessitato un maggior ricorso alle importazioni che quest’anno potrebbero globalmente raggiungere o anche superare 2 milioni di tonnellate. Il volume di frumento duro trasformato in semola si attesta mediamente, e annualmente, intorno a 6 milioni di tonnellate. Si tratta di un quantitativo che fa registrare dei piccoli incrementi riconducibili in primis all’andamento positivo delle nostre esportazioni di pasta che rappresentano ormai il 60 percento della produzione nazionale”.

Il mercato canadese – Dal rapporto del 16 ottobre 2023 della Commissione per lo Sviluppo del Grano in Saskatchewan si apprende che, guardando al perimetro delle esportazioni di Ankara: “La Tunisia, in una sola asta, ha acquistato 100mila tonnellate di grano duro a 415-419 dollari Usa alla tonnellata, prezzo Cif (costo di assicurazione e nolo) di origine turca. L’ingresso della Turchia sul mercato mondiale del grano duro – si afferma nel rapporto – è forte di una produzione 2023/2024 stimata in 4 milioni di tonnellate di cui una buona parte già spedita principalmente in Italia e Canada”.

Un passaggio non da poco che riduce anche la forbice della bilancia commerciale non solo tra Turchia e Italia ma anche tra Turchia e il colosso cerealicolo Canada che, da sempre, è nel ranking dei principali esportatori verso Ankara e che quest’anno ha visto erodersi la quota di mercato in Europa, del 72%.
Da Saskatchewan fanno sapere che: “I valori del grano duro canadese continueranno a soffrire fino al ritorno della domanda in Canada nella seconda metà dell’anno di commercializzazione”, ossia non prima di gennaio-febbraio 2024”.
L’export di Ankara Oltreoceano, è considerato una vera e propria offensiva commerciale anche perché comporta che i prezzi Fob (Franco a Bordo) e all’ingrosso per l’esportazione in progressiva riduzione, accompagnati dalla riduzione dei prezzi delle offerte degli agricoltori canadesi sia spot che a consegna differita.Un effetto che si ripercuote su scala globale.

Per controllare la volatilità dei prezzi di mercato e l’andamento delle rese legate all’incertezza dell’andamento climatico, il governo di Ottawa ha realizzato nell’ultimo biennio due grandi accorpamenti tra big player del mercato. Da un lato, la fusione della della Saskatchewan Wheat Development Commission con la Saskatchewan Winter Cereals Development Commission, entrata in vigore dallo scorso primo agosto scorso.
D’altro canto la fusione tra la Bunge Ltd, colosso statunitense dell’agroalimentare, e Viterra, principale trader di grano canadese controllato dal gruppo svizzero Glencore che a sua volta vede tra i principali azionisti, due grandi fondi pensionistici nordamericani: il Canada Pension Plan Investment Board e British Columbia Investment Management Corporation- Quest’ultima operazione si concluderà a metà del 2024.

Secondo i termini dell’accordo, Glencore riceverà circa 3,1 miliardi di dollari in azioni Bunge e 1 miliardo di dollari in contanti, oltre alla partecipazione del 50% in Viterra, con il risultato che Glencore deterrà quindi circa il 15% delle partecipazioni nel gruppo aggregato. Glencore ha accettato di non vendere alcuna azione di Bunge per un periodo di 12 mesi dopo il completamento della fusione e, successivamente, di vendere solo azioni di Bunge nell’ambito di vendite ordinate. Glencore rivedrà periodicamente la propria strategia rispetto alla partecipazione e l’operazione di fusione.
Il blocco commerciale che si viene così a creare anche in risposta alla gestione degli stock di grano, strumento principale per l’andamento dei prezzi di mercato, per la maggior parte in mano all’asse asiatico (Cina e Russia) e che riguarda ben più della metà delle scorte globali, preoccupa non poco gli agricoltori perché l’obiettivo (per il momento) comune a tutte le potenze coinvolte, è quello di tenere il prezzo del grano basso. Certamente per contrastare la spinta inflattiva. Ma l’effetto secondario di queste tattiche è l’innegabile che porti ad un indebolimento del tessuto produttivo e della sovranità alimentare.

Una preoccupazione che ha portato i gruppi agricoli canadesi a chiedere sin da subito un maggiore controllo dell’operazione di accorpamento che determina un maggiore controllo del mercato.
La logistica – Uno dei fattori che incide sulla competitività dei player mondiali del grano duro è dato dal costo dei noli che sono impennati a seguito della guerra tra Israele e Gaza e il blocco del canale di Suez, o meglio del Corno d’Africa controllato dagli Huthi yemeniti filo-Hamas che lavorano per bloccare il passaggio delle navi destinate a transitare da Suez.
In questo modo, il grano in partenza dai porti nordamericani e in arrivo in Nord Africa ed Europa, dovrà viaggiare più del previsto per arrivare a destinazione, vuoi per la siccità in centro America che ha ridotto in maniera sensibile la portata del canale di Panama, e vuoi per il perdurare e l’ampliarsi del conflitto in Medio Oriente.

I riflessi sui prezzi di questo fenomeno sono ancora poco avvertiti, anche se in Italia i recenti rincari di Foggia e Napoli hanno già fatto segnare un primo punto a favore dei grani duri nazionali. Tuttavia i prezzi Fob per il Canadian Wheat Amber Durum saranno determinati presto, secondo gli esperti, solo dalle quotazioni di Vancouver, porto principale di partenza del grano duro canadese.
L’ostruzione dei porti canadesi della regione dei grandi laghi a causa del ghiaccio – attiva già dai primi mesi dell’anno – è stata seguita il 5 gennaio scorso dalla chiusura programmata della St. Lawrence Seaway, che ha isolato definitivamente fino a primavera tutti i porti cerealicoli nordamericani della regione dei grandi laghi della costa dell’Atlantico.
Si registrano, inoltre, importanti difficoltà a far viaggiare le navi attraverso il Canale di Panama, afflitto da una perdurante siccità che ne limita la capacità, riducendo il tonnellaggio delle navi in grado di attraversarlo e rallentando il traffico.
Questo significa che le navi in partenza dal porto di Vancouver in Canada, sulla costa del Pacifico, hanno solo tre strade per raggiungere l’Europa: percorrere l’Oceano Pacifico fino a guadagnare il Mar Rosso e da lì il Canale di Suez, oppure sulla stessa strada doppiare il burrascoso Capo di Buona Speranza davanti alle coste del Sud Africa, o ancora, terza ipotesi, guadagnare l’Atlantico dallo Stretto di Magellano in Cile.

Ma i recenti atti di guerra e pirateria contro i cargo mercantili, verificatisi nel Mar Rosso, stanno di fatto riducendo a sole due le vie del mare percorribili, che sono le più lunghe ed onerose: il Capo di Buona Speranza e lo Stretto di Magellano. A questi, ovviamente, si aggiunge quella, oggi più strategica che mani, del cosiddetto Corridoio di Mezzo, la via Transcaspica che, ridicendo le distanze di 2mila chilometri, privilegia le spedizioni tra Oriente e Occidente.

Mariangela Latella

 

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Gorgonzola Dop: Oltre 2 milioni di forme esportate nel 2023

Secondo i dati appena resi noti relativi all’export caseario nel 2023, il Gorgonzola Dop tiene bene a volume in un anno non facile e cresce a valore.

Nel dettaglio lo scorso anno le esportazioni sono cresciute dell’1,1% per un totale di 24.982 tonnellate, pari a 2.081.834di forme esportate, con un incremento a valore di circa 202milioni di euro in crescita del 15,5% rispetto all’anno precedente (fonte Clal).

Il Gorgonzola DOP rimane uno dei formaggi italiani più conosciuti all’estero con una diffusione in 91 Paesi in tutto il mondo e una percentuale di prodotto esportato sulla produzione totale 2023 (5 milioni 179mila forme) che, come l’anno precedente, si attesta intorno al 40%.

Con 1.785.167 forme, lUnione Europea assorbe gran parte dell’export. Sostanzialmente stabile la quota diretta ai primi due Paesi importatori in assoluto, Francia (485.803 forme) e Germania (442.800), seguiti dalla Spagna (155.164) dove si registra una crescita dell’8%. Ottime le performance di Macedonia (+89%), Bosnia-Erzegovina (+51%), Norvegia (+40%), Ucraina (+28%) e Polonia (+15%).

Cresce del 2,9% l’export di Gorgonzola Dop verso il resto del mondo raggiungendo quota 296.583 forme. Lo scorso anno sono andate in Svizzera 85.465 forme. Il Regno Unito, che torna a crescere (+8%) per la prima volta dopo Brexit, è stato destinatario di 44.347 forme. Fuori dai confini fisici del continente europeo il Giappone si conferma per il terzo anno consecutivo primo Paese importatore extra UE (44.482 forme) con una crescita del 15%, seguito dagli USA (32.738, +1,56%). Ottime le performance di Indonesia (+147%), Costa Rica (+48%), Hong Kong (+40%).




Confagricoltura: ottima notizia ipotesi della Commissione Ue di introdurre restrizioni a import prodotti agricoli dalla Russia

La Commissione europea sta valutando la possibilità di introdurre restrizioni alle importazioni di prodotti agricoli dalla Federazione Russa, a partire dai cereali. A breve, sarà presentata una specifica proposta.

 

“E’ un’ottima notizia – ha commentato il presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti – Auspichiamo che il via libera venga dato al massimo livello politico, già in occasione del Consiglio europeo che si terrà il 21 e 22 marzo, a Bruxelles”.

 

Le sanzioni nei confronti della Federazione Russa – ricorda Confagricoltura – non si applicano ai prodotti destinati all’alimentazione.

 

“Di fronte alla profonda crisi dei mercati in Italia e nella Ue – prosegue Giansanti – abbiamo sollecitato un cambio di rotta e siamo lieti di apprendere che la Commissione abbia deciso di procedere verso la messa in opera di restrizioni in grado di ridare stabilità ai mercati e fermare il crollo dei prezzi agricoli all’origine”.

 

Confagricoltura evidenzia che, in base ai dati Istat, nel periodo gennaio-novembre 2023 le importazioni di grano duro dalla Federazione Russa sono ammontate a 400 mila tonnellate. Nello stesso periodo del 2022 si attestavano a 32 mila tonnellate. L’aumento è del 1.100%.

 




Ente Risi: Scongiurato un grave pericolo per il riso europeo

Nelle ultime settimane la Presidenza belga del Consiglio dell’Unione europea ha cercato di riaprire il trilogo relativo alla revisione del regolamento che stabilisce un Sistema di Preferenze tariffarie Generalizzate nel quale figura il regime a favore dei Paesi Meno Avanzati, grazie al quale importanti paesi produttori di riso, come Cambogia e Myanmar, possono esportare verso l’Unione europea quantitativi illimitati di prodotto in esenzione del dazio.

La Presidenza belga ha proposto un nuovo testo di compromesso che ha ottenuto la maggioranza qualificata nella riunione del COREPER II del 13 marzo, grazie ad alcune modifiche relative all’immigrazione, ma che non contempla la clausola di salvaguardia automatica per le importazioni di riso dai Paesi Meno Avanzati al superamento di una determinata soglia percentuale di importazione nell’Unione che, invece, risulta nella posizione espressa dal Parlamento europeo a maggio del 2022.

Forte del benestare del COREPER II, la Presidenza belga avrebbe voluto organizzare un trilogo il giorno successivo per definire un testo di compromesso, approfittando del fatto che diversi eurodeputati, sostenitori della clausola di salvaguardia automatica per le importazioni di riso dai Paesi Meno Avanzati, non avrebbero potuto parteciparvi perché impegnati nella sessione plenaria del Parlamento europeo. Gli eurodeputati hanno fatto muro, anche indispettiti da questa strategia della Presidenza belga a dir poco spregiudicata, e non hanno accettato la riapertura del trilogo.

Va fatto un plauso agli eurodeputati che, pur rappresentando interessi politici diversi, hanno fatto fronte comune.

Ancora una volta, la componente fortuna non ha avuto alcuna rilevanza perché questo risultato è frutto del lavoro svolto dal Masaf, dal MAECI, da tutti i rappresentanti della filiera risicola italiana ed europea, dalle organizzazioni dei produttori agricoli e dall’Ente Nazionale Risi.

Tutti insieme abbiamo agito prontamente per scongiurare la riapertura di un trilogo che avrebbe potuto portare ad una soluzione di compromesso priva della clausola di salvaguardia automatica per le importazioni di riso dai Paesi Meno Avanzati richiesta a gran voce dal Forum del settore del riso dell’Unione europea.

Naturalmente il lavoro prosegue, perché dopo le elezioni europee dovremo confrontarci con una nuova composizione sia del Parlamento europeo sia della Commissione e fare in modo che al momento della riapertura del trilogo il nuovo Parlamento europeo riesca a far prevalere la posizione espressa del Parlamento uscente che, grazie alla clausola di salvaguardia automatica sul riso importato dai PMA, tutelerebbe la produzione di riso nell’Unione europea.




Import. Ue studia sistema a semaforo per chi produce deforestando. Commissario Ue Sinkevičius in Sud America

Partirà questa settimana il tour del commissario europeo per l’Ambiente Virginijus Sinkevičius in Paraguay, Bolivia ed Ecuador, per dare risposta alle preoccupazioni legate all’attuazione del primo divieto mondiale sui prodotti legati alla deforestazione, una misura bollata come protezionistica da alcuni partner commerciali Ue. Secondo i dati del Parlamento europeo, il consumo dell’Ue è responsabile di circa il 10% della deforestazione globale, di cui due terzi sono dovuti all’olio di palma e alla soia.

Per questo, le aziende che vorranno immettere i loro prodotti sul mercato europeo dovranno utilizzare i dati di geolocalizzazione per dimostrare che non provengono da terreni deforestati o degradati dopo dicembre 2020, con sanzioni fino al 4% del fatturato annuo totale nell’Ue in caso di violazione del regolamento.

Le norme, che contribuiscono agli sforzi dell’Ue per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, influenzeranno, tuttavia, le importazioni di bovini, cacao, caffè, olio di palma, soia e legno, nonché di molti prodotti derivati come cioccolato e cuoio. Per questo sono arrivate numerose critiche soprattutto da parte dei maggiori produttori mondiali di questi beni, come Malesia, Indonesia e Brasile, che imputano all’Ue l’utilizzo del potere commerciale per dettare l’agenda ambientale in altri paesi

Sinkevičius inizierà il suo viaggio il 15 marzo dal Paraguay, un Paese che si è schierato pesantemente contro l’adozione del nuovo regolamento Ue. Nel tentativo di alleviare le preoccupazioni, Sinkevičius intende però sottolineare il sostegno dell’Ue alla creazione di un “sistema di tracciabilità per facilitare la conformità, in parte finanziato con 10 milioni di euro, oltre al finanziamento di altre iniziative anti-deforestazione”, secondo quanto ricostruisce Euractiv.

Sinkevičius ha comunque riconosciuto che la Commissione sta ancora finalizzando i dettagli del regolamento, compreso un sistema a semaforo per classificare i paesi in base al loro livello di rischio di deforestazione, che determinerà il livello dei controlli sulle importazioni. Il Commissario ha anche aggiunto che le strutture europee stanno collaborando con le parti interessate allo sviluppo di una metodologia per il benchmarking, puntando a garantire che sia “il più obiettiva e trasparente possibile”.

Una lettera congiunta inviata lo scorso settembre alle autorità dell’Ue, firmata da Indonesia, Brasile e altri 15 paesi, descriveva il sistema di benchmarking come “discriminatorio e punitivo”, con il potenziale di violare le regole del commercio internazionale. “Di fronte alle forti critiche, l’esecutivo Ue sembra voler ritardare la pubblicazione della classificazione, lasciando la decisione alla prossima Commissione, che entrerà in carica dopo l’estate, dopo le elezioni europee di giugno”. Reuters ha infatti riferito che la Commissione sta valutando la possibilità di rinviare la pubblicazione delle valutazioni del rischio al 2025, designando tutti i paesi con un livello di rischio “medio” fino all’implementazione della metodologia.